Discorso sulla felicità.
Pietro Verri
Edizione di riferimento:
Scritti vari di Pietro Verri ordinati da Giulio Carcano
preceduti da un saggio civile sopra l’autore per Vincenzo Salvagnoli, volume
primo, Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1854.
§ I. — INTRODUZIONE.
Se la condizione dell’uomo è tale che qualunque sia lo stato
suo o di propizia o di avversa fortuna, sempre la somma delle sensazioni
dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle sensazioni piacevoli
(siccome nel discorso precedente [1] credo di aver provato), per necessità
converrà dire che non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante, ed
all’incontro può darsi la miseria e l’infelicità. Questa verità sconsolante
sarebbe da dissimularsi, se col palesarla e svilupparla non ne venisse del bene;
e credo io che ne venga e tale e tanto, che in esso si racchiude quel di meglio
che il retto uso della ragione può farci conseguire; e che la più sublime e la
più utile verità a cui ci conduce la filosofia, sia il conoscere che la
felicità considerata come una quantità positiva e segregata dal male è un
sogno, e che tutto il saper nostro non può rivolgersi a un nostro utile reale,
se non quando abbia di mira la diminuzione soltanto dei nostri mali. In fatti,
se fissataci una volta in mente l’idea d’una assoluta felicità paragoneremo a
quella lo stato nostro, tanto lo troveremo distante da quella sognata
beatitudine che renderemo sempre più amaro e misero a sopportare lo stato della
nostra condizione. Che se, più illuminati, conosceremo essere i mali il nostro
retaggio, ed una inseparabile conseguenza del composto di cui siamo formati; se
conosceremo che gli uomini che in apparenza ci sembrano i più invincibili e
felici, sono il più delle volte meschini, costretti a portare sul viso una
maschera ridente, ma realmente rosi da mille angosciose passioni, e forse più
miseri di quello che non lo siamo noi; se toccheremo con mano che quand’anche
da noi soli dispoticamente dipendesse l’organizzare tutto il genere umano a
nostra foggia e collocarci all’apice della dominazione, ciò non ostante saremmo
infelici per sazietà, per la noja, e pel vuoto di non aver più desideri:
allora, ritornando in noi medesimi, troveremo conforto ai nostri mali,
ripiglieremo vigore per rintuzzarli, o indurirci a quelli, e non disperando di
nostra condizione, cercheremo di rendere più piccola la nostra infelicità
coll’industrioso maneggio della ragione, ripiegandoci in noi medesimi, e
contrapponendo cosa a cosa, e bilanciandoci cogli avvenimenti, come appunto un
abile architetto la stessa gravità distruggitrice fa servire alla solidità
dell’edificio.
L’eccesso de’ nostri desideri sopra il potere è la misura
della infelicità. Chi niente desidera, è in uno stato di letargo; chi
sommamente desidera, s’accosta al delirio. Il primo non è infelice, il secondo
lo è di tanto quanto non può conseguire. Ma l’assenza de’ desiderj è piuttosto
vegetazione che vita, e non si dà che per intervalli, laddove la violenza de’
desiderj la prova ogni anima che sente con energia, e talvolta può essere uno
stato durevole. Le operazioni adunque da farsi per allontanarci dall’infelicità
sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l’uno e l’altro insieme.
Ma siamo noi padroni di diminuire i desiderj nostri; siamo noi
arbitri di accrescer il nostro potere? In tutto no certamente, perchè ogni
volta che soffriamo un dolor fisico, è una conseguenza fìsica in noi il
desiderarne la cessazione; perchè il preservarci totalmente anche da’ soli
errori di opinione non è compatibile colla imperfezione del nostro essere;
perchè il dilatare il poter nostro oltre certi confini viene interdetto dalla
fìsica stessa e dal potere degli enti che lottano con noi. Ma il premunirci
coll’uso della ragione e col placido esame contro l’insidioso assalto delle
passioni prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo
dell’immaginazione; ma lo scemare e molto più l’impedire il nascimento de’
desiderj nostri di tanto almeno quanto v’è di sognato ne’ beni che immaginiamo,
è sicuramente entro i confini della nostra volontà, come è in mano nostra
l’accrescere il poter nostro con varj mezzi che andremo esaminando; e vedremo
che certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero
singolarmente nella loro prima età un uso continuato e intero della loro
ragione per esaminare i loro interni movimenti, e ridurre a sistema ed a
principj le proprie azioni. L’immaginazione d’ogni uomo è sempre disposta ad
ingrandire i mali che temiamo e i beni egualmente che desideriamo; e ognuno
riflettendo sopra di sé medesimo, e ricordandosi delle sensazioni provate, sarà
meco d’accordo Dell’asserire che, realizzatisi i desiderj, gli oggetti agiscono
sopra di noi con assai minore energia di quanto ci aspettavamo. Se adunque si
toglierà ai desiderj nostri tutta la porzione che in essi si racchiude di
chimerico, di molto se ne diminuirà la somma. Esaminiamo questi principj, e
cominciamo dai desiderj.
§ II. — DELLA
RICCHEZZA.
Le ricchezze sono lo scopo di uno de’più comuni desiderj; e
certamente, essendo elleno come un pegno del diritto che gli uomini hanno sulle
cose, chi le possiede sembra dilatare la propria essenza ed interessare una più
gran parte della natura ne’ suoi piaceri. Il desiderio di esse non può essere
dalla ragione diminuito sin tanto che si circoscrive ai bisogni fisici e
civili; ma pochi sono coloro i quali sapendo far uso di loro ragione, trovinsi
in questo caso. Il destino, o per dir meglio la spensieratezza dell’uomo fa che
evidentemente desideri la ricchezza, e poi quei pochi che l’ottengono diventano
realmente più infelici di prima; perchè l’arte di saper godere delle ricchezze
è molto più rara dell’arte di acquistarle; anzi l’avidità di ammassarle per lo
più esclude quella generosa e nobile distribuzione dalla quale sola dipende il
godimento. Chiunque conosca un uomo che dalla povertà sia giunto ad ammassare
una ricchezza importante, dovrà dire che sarebbe stato più felice, se avesse
posto più angusti limiti ai suoi acquisti. La cura incessante di placare la non
mai sopita invidia, la inquietudine di preservare i beni dall’invasione, la
sollecitudine, il sospetto sogli attentati altrui, la sete sempre rinascente di
accrescere gli acquisti, la non mai saziata avidità, la pena d’essere come sul
teatro, rappresentando un personaggio in faccia del pubblico censore attento e
difficile delle azioni d’un uomo che da povera condizione sia giunto alla
ricchezza, la vista di eredi che hanno scritta in fronte la impazienza del
nostro fine, i mali fisici che accompagnano la vita molle affannata da un
fascio di svariatissime sensazioni; tale è lo stato a cui cerca di giugnere chi
sconsigliatamente desidera una grande ricchezza. Chiunque sei che possiedi un
moderato patrimonio, se ti è odiosa l’infelicità, se brami di passare la tua
vita il meglio che si può, stabilisci i confini a’ tuoi desideri, e sia questo
il dio Termine sacro e inviolabile posto dalla sapienza. Un accrescimento che
tu faccia ai beni tuoi oltre la tua moderala condizione, è il seme da cui
ripulluleranno innumerevoli nuovi desiderj che giammai non giugneresti a pareggiare
col potere. Misura le tue spese, limita gli eccessi capricciosi, soddisfa i
tuoi bisogni in prima, poi la decenza: se te ne rimane di più, donalo alla
beneficenza, non mai al lusso; e sia certo che l’avaro egualmente che il
prodigo sacrificano i bisogni reali ai bisogni chimerici, perchè il primo
pospone i bisogni presenti a’ venturi capricci, e il secondo preferisce i
capricci presenti ai venturi bisogni. Il primo sempre si apparecchia per viver
bene, e mai non vive realmente bene; l’altro divora tutto nel momento attuale,
e si dimentica di viver bene nel tempo avvenire.
Io non dirò il paradosso che un patrimonio cospicuo sia un
male, nè che l’uomo saggio debba spogliarsene, o gettar nel mare le ricchezze,
come si raccontò d’un antico filosofo; dico anzi che questi potranno essere
mezzi per acquistare assai beni e contribuire alla propria felicità. Ma dico
che ciò accaderà allorquando questi mezzi ci sieno venuti indipendentemente da’
nostri sforzi continuati per ottenerli, perché allora chi se ne trova al
possedimento, può aver l’animo superiore alle ricchezze medesime, e
considerandole come mezzo di aver i beni, e non beni per loro medesime,
maneggiarle, ripartirle, servirsene con accorta e saggia distribuzione senza
affanno; laddove l’uomo che divorato dal desiderio di ricchezza l’ha ammassata
gradatamente colle proprie azioni, deve aver già abituato il suo cuore
all’affannoso desiderio che non mai si limita, anzi si moltiplica colla nuova
esca, e signoreggiato dal proprio denaro ne porta servilmente il peso, e
palpita e si angustia per accrescerlo, conservarlo e ripartirlo. Lorenzo de’
Medici trovò da’ suoi maggiori ammassati i tesori; nella sua prima età non si
occupò col pensiero d’arricchirsi, ma portato da un felicissimo genio verso il
bello e il grande, dotato di fino sentimento per discernerlo, si abbandonò in
braccio alla nobilissima passione di onorare e proteggere il merito. Conosce in
un fanciullo la nascente passione per essere uno scultore, lo abbraccia, lo
assiste, lo ricovera, lo anima, e presenta all’età venture un Michelangelo. Ma
nessuno di questi privilegiatissimi piaceri può gustare l’uomo diuturnamente
abituato ad ambire ed ammassare le ricchezze, perchè, siccome dissi, il
desiderio non è mai sazio, e l’ammasso non è compiuto giammai: quindi non può
l’uomo che per uno sconsigliatissimo partito abbandonarsi al desiderio delle
ricchezze. Tutti adunque gl’infelici i quali soffrono l’angustia di bramare i
tesori e di accumularli, e ne sopportano le lunghissime cure, le umilianti mortificazioni,
il sacrifìcio frequente della loro probità; sono infelici appunto perchè non
ragionano abbastanza, perchè non vedono esattamente bene gli oggetti ai quali
corrono dietro; e se la ragione venisse esercitata nell’esame importantissimo
di noi medesimi, sarebbero tolti dalla lunga lista degl’infelici tutti i molti
che vi sono per avidità di ricchezze. Che cerchi tu mai di ottenere col tuo ammasso? Forse i
piaceri fisici? Questi sono destinati per
l’uomo amabile: l’amore comprato è la cosa la più insipida e umiliante di
tutte. Forse la stima degli uomini, comprandoti delle condecorazioni? Gli
uomini irritati per questo appunto faranno noti i tuoi piccoli principj, e il
ridicolo si intreccierà co’ fasci de’ tuoi littori. L’uomo condecoratlo per
nascita e per merito ti spregierà, se sarai cinto colla stessa fascia d’onore,
da lui acquistata co’ servigi renduti allo Stato, e da te a contante. Il vero
interesse nostro ben conosciuto ci reca il disinganno sulla chimerica felicità
delle grandi ricchezze, ed ecco svelto un gran ramo de’ nostri desiderj i più
difficili a giammai pareggiare col potere, perchè grandeggiano sempre più
progredendo.
Ma, per allontanarci dal pericolo di desiderare la ricchezza,
è ugualmente necessario il fare un uso moderato e un prudente riparto de’ beni
nostri. La spensieratezza nella privata economia porta con sé la ingiustizia
verso i nostri creditori, il cambiamento sempre in peggio della condizione
nostra, la diminuzione annua de’ comodi ai quali siamo abituati, e alla fine ci
conduce a un cocentissimo desiderio di que’ vantaggi che godevamo ed abbiamo
scioperatamente perduti. La memoria del passato fasto, la vista dell’inopia
attuale e durevole fanno un contrasto desolante a segno che piombiamo talvolta
nell’avvilimento, e da quello, quasi lusingandoci d’un ritorno allo stato
primiero, siamo disgraziatamente spinti talora sino al delitto. Se il prodigo
avrà famiglia, facilmente ognuno comprenderà con qual piacere possa egli
contemplare la sposa alla quale non può somministrare il decente corredo, i
teneri figli abbandonati nella educazione e degradati dalla condizione a cui
avevano diritto di aspirare. Sia anche solo e libero il dissipatore, a misura
che va egli invecchiando, cioè a misura che crescono i bisogni de’ comodi, i
mezzi vanno diminuendosi, scompaiono colle ricchezze i falsi amici, trovasi
isolato e in preda all’amarezza ed all’abbandono. I pochi piaceri divorati
frettolosamente nella gioventù non pesano nè bilanciano i lunghi rammarichi che
rimangono a soffrire negli ultimi anni. Se l’uomo vi riflettesse, non
accetterebbe certamente mai di fare un tal cambio. Ma nei più la mente è priva
delle nozioni più interessanti per la felicità. Le passioni nacquero; il
momento presente, il capriccio attuale occupano soli la mente, e nemmeno di
volo si getta uno sguardo sull’avvenire. L’uomo che seppe essere uomo
dapprincipio, e che nella prima età si abituò a dubitare prima di decidere, ad
esaminare prima di scegliere, non farà mai tale abuso de’ suoi beni da
prepararsi col tempo gli smaniosi desiderj di riaverli. Ami tu il denaro?
Custodiscilo con sapienza. Cerchi tu forse colla profusione, colla pompa, e
col fasto di rendere attoniti gli
uomini, e farti credere più che non sei possente e magnanimo? L’illusione
accecherà te solo; alcuni pochi saggi e buoni ti compassioneranno; i più ti
dileggeranno. Le tue facoltà sono note; non sperare che i creditori sieno
pitagoricamente taciturni: la città conosce che il tuo fasto non è durevole: la
tua grandezza ti guida ad usurpare l’altrui, a mancare di fede se ti abbandoni
alla profusione. Avrai alcuni scaltri parassiti: come edera tenace ti
avviticchieranno, ficcheranno le radici nel tronco, e alimentandosi coll’umore
di quello ti crederai fiancheggiato. Sgombreranno al primo bisogno; gli amici
non si comprano: le anime capaci di profittare della rovina altrui, non lo sono
d’amicizia: questo sacro e nobile sentimento del cuore è disinteressato, nasce
dalla virtù, dall’uniformità del genio e da’ beneficj fatti per iscelta e non
per fasto, e nati da una espansione di cuore anzi che dalla spensieratezza.
Tale è il linguaggio della ragione; la quale evidentemente ci dice: Se tu
spendi quest’oggi più che non ti fruttano i tuoi beni ogni giorno, o devi aver
fatto risparmio ne’ giorni passati, ovvero risparmierai nell’avvenire. Se in
quest’ anno la tua ricchezza di mille non ti basta, e ne vuoi spendere mille e
dugento, dunque nell’anno venturo tu spenderai solo ottocento; e come questi
basterebbero se in quest’ anno i mille non bastano? Questo facilissimo,
popolarissimo ragionamento solo basta a tenere lontano ogni uomo dalla
dissipazione, e così dalla miseria d’essere in preda a inutili desiderj di
ricchezza. L’uomo adunque facendo buon uso della ragione datagli dall’Essere
Eterno appunto per farne buon uso, può liberarsi e prevenire una folla di
desiderj tormentosi di ricchezza, e così guardarsi da una moltitudine di lacci
che lo strascinano, se è spensierato, all’infelicità.
§ III. — Dell’ambizione.
L’ambizione è forse la passione la più funesta insieme e la
più benemerita; a lei dobbiamo la massima parte dei politici disastri e delle
più grandi e utili imprese; i desiderj che la costituiscono hanno per oggetti
la gloria, la stima, gli onori.
Gli uomini energicamente organizzati e dotati d’una robusta
maniera di pensare sentonsi angustiati da due limiti tanto vicini fra il
nascere e il morire: la loro esistenza è come compressa in un piccolo spazio, e
quindi con un nobilissimo entusiasmo sentono il bisogno di estenderla a più
lontani limiti di tempo e di luogo. Questi sono ambiziosi di gloria, e cercano
di lasciare ai secoli venturi e alle rimote nazioni vivo il loro nome o per
conquiste o per regolamenti civili, ovvero coll’accrescere il deposito de’
lavori dell’ingegno. Sono questi o soldati, o ministri, o uomini di scienze, di
lettere e di belle arti. Un monarca ambizioso di gloria trova già preparate le
due prime strade; ma per l’ultima gli conviene partire dal punto medesimo
d’ogni altro uomo, cioè dalla ignoranza. Perciò nell’indice delle biblioteche
gli autori coronati vi sono in assai maggior numero che non trovansi nella
serie cronologica i sovrani conquistatori e legislatori. Ma per un uomo privato
le due prime strade della gloria sono difficilissime, e per un capitano di
condizione privata veramente illustre, per un ministro degno di memoria
l’antichità ci ha trasmessi venti privati scrittori, architetti, pittori che
hanno reso celebre il loro nome. Chi cerca fra i privati di passare alla
posterità scegliendo il partito delle armi, rifletta che più due milioni
d’uomini avran dato il nome alla milizia in questo secolo sino alla metà di
esso, e che appena sei generali fra gli uomini privati si conteranno, i quali
veramente abbiano avuta occasione e sapere per veder scritto il loro nome nel
tempio brillante della gloria. E quand’anche il tempo non cancellasse alcuno di
questi nomi, sarebbe sempre la probabilità di acquistarsi la gloria per questa
via come l’unità a trecento e più mila, sorta di lotteria di cui la
disuguaglianza balza agli occhi troppo facilmente. Quindi è che realmente siano
mossi piuttosto dall’ambizione degli onori che dall’ambizione della gloria
coloro che intraprendono questa carriera per ambizione. Se cercasi la gloria
dai privati che ambiscono le cariche del ministro, sono anch’ essi abbagliati
da un seducente oggetto che è difficilissimo a conseguirsi. Gli affari umani si
muovono quasi sempre per una diagonale composta da più forze motrici: l’energia
medesima dell’animo ambizioso di gloria, per quanto sieno retti i di lui fini e
limpida la sua morale, ne scosta gli elementi motori. Gli uomini si collegano
meno contro una nascente ricchezza che contro una gloria nascente. E siccome in
questa carriera non si possono occultare i primi progressi, come si fa nelle
lettere, volendo; così si deve combattere mentre che ti stai armando, e
pochissima resta la probabilità della riuscita. Quindi pochissimi ambiziosi di
gloria fra i privati s’ingolfano a cercarla negli affari pubblici, e quei che
ne intraprendono la carriera per ambizione, lo fanno per l’ambito degli onori.
Se hai dunque desiderio di gloria e di passare ai posteri, ragionando tu
sceglierai la strada la più indipendente, la più tranquilla e non meno
lusinghiera, cioè quella delle scienze, delle lettere e delle belle arti; giacché,
se il tuo animo ha tanto vigore di non accontentarsi dell’ambizione degli
onori, non ti mancherà l’ingegno e il calore per innalzarti negli studj della
mente al punto di meritarti e ottenere la gloria. Gli onori può darli un uomo,
ma la gloria la danno gli uomini, le età, le nazioni. Chi s’innalza sopra di
essi, è in gran pericolo al primo slanciarsi che fa a volo: quello è il tempo
della oscurità e del silenzio pel saggio; ma spiegato che sia il volo, è decisa
la superiorità. Gli uomini cessano d’invidiare uno che ha cessato d’essere
oggetto di confronto, si rivolgono ad ammirare chi gli ammaestra, e in
ricompensa dell’utile e del piacere che ne ritraggono, e delle fatiche
sostenute a tal fine, lo onorano, e insegnano ai figli loro di onorarlo; nel che
consiste la gloria. Io non dirò che il desiderio della gloria per gli altri
oggetti sia da spegnersi; dirò bensì che per un Alessandro, un Cesare, un
Maometto vi sono migliaja d’uomini infelicissimi, e che questi tre
conquistatori, da quanto possiamo saperne, furono essi medesimi divorati da
amarissime passioni. Dirò che per un Sejano, per un Triboniano e per un
Richelieu, si può dire lo stessa dei disgraziati che hanno ambito la gloria
negli impieghi pabblici; e questi fortunati nemmeno lo furono per la loro
felicità. Dirò finalmente che i desiderj della gloria, portando un privato alla
contemplazione della verità e alla perfezione delle arti liberali, lo ripongono
nello stato il più invidiabile per un uomo ambizioso di gloria. Quindi invece
di combatterne il desiderio, saggiamente pensando alla propria felicità,
convien coltivarlo. Ma questa gloria conviene invitarla, meritarsela ed
aspettarla senza una indiscreta impazienza. Gli uomini di lettere nella prima
loro gioventù talvolta si slanciano nell’arena ancora mal esperti. Questa
giovanile impazienza è da calmarsi; conviene aspettare di aver cose da
presentare al pubblico giudizio le quali s’innalzino sulla mediocrità. La
gloria, cioè una generale, estesa e durevole opinione, non si può ottenere
dagli uomini in un momento. Al primo comparire d’un’opera interessante, le
opinioni sono divise; non conviene maravigliarsi d’un avvenimento che è
inevitabile, nè promettersi un accordo istantaneo delle tante discordi menti
umane in favor nostro, peggio poi discendere a confutare le censure che la
piccola invidia o l’ignoranza fanno sempre nascere appunto a corredare un bel
lavoro per morire un momento dopo, come i vapori esalati da paludoso terreno
schiudono un baleno che abbaglia e sviene, lasciando gli astri adorni
dell’immortal luce placidi ed eterni nella loro rivoluzione. Se, desiderando la
gloria delle belle arti, conoscerai intimamente queste verità, non avrai
desiderio che non sia compiuto, a meno che tu non offenda incautamente
coll’annunziare le tue idee quegli uomini e que’ ceti che possono far soffrire
bensì un uomo, ma non già togliergli la gloria, esposto ch’egli abbia alla
pubblica luce il suo lavoro.
L’ambizione della stima è un sentimento più circoscritto alle
persone meno rimote da noi, e ad un tempo limitato poco più del vivere nostro.
Questa ambizione è compagna della virtù, e se la prima ambizione tende a
sottometterci gli uomini, questa sembra accostarceli e aver per oggetto di
rendercegli amici. Se il desiderio della stima pubblica cade nell’animo di un
uomo superiore al comune livello per dignità e potere, potrà egli vederlo
adempiuto facilmente. La rettitudine, la popolarità, la beneficenza,
l’amorevolezza delle maniere bastano; ma so ti abbandoni al desiderio di
ottenere la stima de’ tuoi eguali ti prepari l’amarezza, perchè nel tempo
istesso in cui si sentiranno costretti a stimarti, il dolore di contribuire a
darti col loro suffragio una temuta superiorità, farà che non te la mostrino. I
nostri pari sono nostri rivali nati; mostreranno essi più distinzione ad un
uomo mediocre che li diverte e non gl’imbarazza, che ad un cittadino virtuoso
che con una nobile fermezza vuol sempre essere buono, e tacitamente loro
rimprovera col paragone che non siano tali. Gli uomini saggi quando hanno
ambito la stima generale, hanno sempre incominciato dal popolo, più facile ad
acquistarsi, perchè non trovasi in concorrenza con noi, nè sente rivalità della
superiorità nostra già stabilita dalla fortuna, anzi ci sa buon grado che
valutiamo la sua opinione, e che ci spogliamo dell’orgoglio che circonda chi è
superiore al popolo, ed è disposto ad esaltare la nostra virtù per poco che ne
lasciamo travedere. Allora fiancheggiati dalla stima de’ popolari costringiamo
gli stessi ottimati a celare la loro rivalità e soccombere al numero. Che se
immediatamente cerchi il suffragio de’ tuoi pari, tu desideri un’opinione
instabilissima per natura, la quale, quand’anche si ottenga, porta sempre seco
la maggiore probabilità pel cambiamento. Chiunque non avendo un animo comune, si
propone d’acquistare i suffragi de’ suoi pari, deve per lo più disporsi ad un
intero e lungo sacrifizio col modellare ogni parola ed ogni atto esterno sulle
opinioni e sui pregiudizi di essi, per modo che rinunziando quasi all’esistenza
propria, deve addossarsene una fattizia, e ciò per tentare l’acquisto di una
chimera pronta a scomparirgli davanti al minimo soffio contrario. L’assurdità
di questo contratto è tanto evidente che io non so che alcun uomo non volgare
lo abbia mai fatto. Convien dunque cercar la stima generale non mai al nostro
livello, ma o più alto o più basso; perchè coloro che son posti a sedere più
alto di noi, egualmente che i molti che corrono nel piano più basso non sono in
rivalità di virtù e di merito, e ci giudicano senza passione almeno, se non
senza errore. Quindi l’ambizioso della stima pubblica diminuirà o cancellerà
dal suo cuore il desiderio di quella de’ suoi pari, ed ascoltando la ragione
non mai bastantemente adoperata sull’importantissimo affare della felicità
nostra, coltiverà quella sola porzione di desideri che sia pareggiabile col
potere, lo ho detto che l’ambizione della stima è compagna della virtù, non già
perchè sempre l’uomo virtuoso sia mosso da desiderio di acquistarsi la stima,
ma perchè questo desiderio sarebbe una contraddizione se si supponesse in un
animo capace di commettere azioni ingiuste, dure o crudeli, azioni
distruggitrici della stima pubblica; ed ho appoggiato anzi alla virtù che alla
superiorità de’ lumi l’acquisto della stima, perchè questi ci sforzano ad
ammirare ed a confessarci inferiori, ma non ad avere quella rispettosa
benevolenza e fiducia che porta con sé il sentimento di stima.
Finalmente l’ambizione degli onori è la terza classe, la quale
nè esclude, nè suppone le virtù del cuore e l’energia dell’animo. Questa classe
di ambiziosi è più numerosa incomparabilmente delle altre due. Alcune volle
l’uomo di merito, e che vive lontano dalla ricerca degli onori, si trova
amareggiato dalla insolenza e dal fasto d’uno che è distinto nella società per
una carica o per un titolo. Questi amari frizzi si moltiplicano; vede che il
merito disarmato è oppresso dal vanaglorioso; si determina e si scaglia
impetuosamente sulla carriera per acquistarne e pareggiarsi agli altri e
sottrarsi alla ingiustizia, e prova allo stolido che la distanza posta dalla
fortuna fra un uomo e l’altro non è sempre uno spazio insuperabile. Questi
ambisce gli onori per sottrarsi all’insultante fasto altrui, non perchè in sé
stesso gli abbia in pregio. Altri cercano gli onori come un testimonio del
merito proprio: leggieri, fluttuanti, incerti fra il bene e il male, la maggior
parte degli uomini vorrebbero persuadersi di valere, e provano frequenti
occasioni di conoscere che valgon poco. Questa fatale incertezza li rattrista:
sembra loro di uscirne acquistando degli onori: costoro sono uomini vani e non
uomini ambiziosi. Ambizioso è colui che li cerca come un mezzo per difendersi;
vano colui che li cerca come un testimonio del proprio merito che non trova
nella propria coscienza. La vanità più facilmente conduce agli onori che
l’ambizione, perchè l’animo dell’uomo vano, appunto perchè più incerto di sé
medesimo, è più versatile e pieghevole alle diverse circostanze de’ tempi e de’
luoghi; laddove l’animo vigoroso di chi ha ambizione è più rigido e meno docile
per conseguenza a prendere l’aspetto piacevole in faccia a chi è l’arbitro
nella distribuzione degli onori. Quando la distribuzione degli onori dipende e
da uno o da pochi, l’incertezza dell’esito diminuisce a misura del merito de’ distributori.
Sotto di un capriccioso despota, sotto un Caligola, chi può mai prevedere se
sarà fatto console l’uomo di virtù o un cavallo? Sotto un saggio monarca è meno
difficile il prevedere se sarà esaudita o no una supplica, perchè le vie della
sapienza sono semplici e chiare, quelle dell’arbitraria opinione sono un
labirinto. Le cariche poi e gli impieghi non sempre si danno a chi sappia
meglio esercitarle, ma talvolta a chi sa meglio esser gradito al distributore.
La fiducia di dilatare il proprio potere riponendo in carica de’ meri stromenti
de’ loro fini, può molto presso i ministri primarj generalmente. Vi sono
fortunatamente delle eccezioni, ne conosco; ma tanto più sono pregevoli, perchè
sono rare. Pochissimi poi sono che non temano la superiorità de’ lumi e della
forza d’animo. Queste qualità, vedute, producono maraviglia; sentite, producono
timore; esercitate, producono o l’esterminio di chi le possiede, o l’ubbidienza
degli uomini.
Conosciute che siansi queste verità, l’uomo esaminerà sé
medesimo, esaminerà gli uomini coi quali dovrebbe porsi ad agire per ottenerli
loro concorso, e scemerà, coll’abbandonare una vana lusinga, la classe de’
desiderj che erano nati prima che la ragione lo illuminasse e ne facesse
conoscere la ineseguibilità. E per gli altri desiderj che rimarranno, molto si
scemerà della loro inquietudine qualora rifletta che la maggior parte de’ beni
che si sono avidamente desiderati, ottenuti che siansi, s’impiccioliscono e
quasi svengono. Ognuno che abbia molto desiderato un onore, indi lo abbia
ottenuto, mi farà sicuro testimonio quanto sia questo bene diminuito di pregio.
L’occhio vede più piccoli gli oggetti, a misura che sono più rimoti:
l’ambizione, per lo contrario, quanto più sono da noi lontani gli ingrandisce,
e quanto più s’accostano gli smagra, gli spolpa, e moltissimi s’annientano al
contatto.
La ragione ci ha abituati a correggere la illusione ottica e
giudicare dell’estensione anche degli oggetti lontani senza sottrarvi dalla
vera grandezza: la stessa ragione ci può abituare a correggere l’illusione
dell’ambizione e preservarci dall’ingannevole giganteggiare di minimi oggetti
quasi insensibili per loro stessi. È legge inviolabile che sempre i beni che si
possedono si pregiano meno de’ beni che si ambiscono; ma la differenza in chi
non ragiona è la massima, e sempre va diminuendo a misura che sappiamo far uso
della nostra mente per esaminare questi oggetti importantissimi della nostra
felicità.
La parte d’Europa ove siavi il maggior fomento per l’ambizione
degli onori, è sicuramente Roma, perché ivi trovasi la possibilità de’ più
grandi acquisti con minimo tempo e limitatissime condizioni. Che un nobile sia
fatto Doge della sua patria; che sia creato re elettivo con una moderata
autorità, non è questo uno spazio corso, pareggiabile a quello d’un poverissimo
fraticello, senza nome, senza appoggi, che in sette anni si trova sovrano d’uno
stato, padre dei monarchi e capo della religione. L’importanza di quella che
noi chiamiamo fortuna si deve conoscere non tanto dal grado a cui uno è giunto,
quanto dalla condizione da cui è partito, dal tempo che ha impiegato per
giugnere, e dal luogo in cui si è collocato. Un elettore che sia fatto capo
dell’impero, un principe del sangue a cui passi una corona, hanno fatto un
passo: un uomo di fortuna che giunga ad essere il primo ministro d’una vasta
monarchia, come il cardinale Alberoni, ne ha fatti più; ma il padre Ganganelli,
fatto cardinale e sommo pontefice in meno di sei anni, ha camminato con una
rapidità somma un lunghissimo spazio, e tale che in nessuna altra parte
d’Europa può un privato fare altrettanto. Chi ha potuto accostarsi a Clemente
XIV assicura che acquistare quel sommo grado e perdere la sua pace fu un punto
solo.
Francesca d’Aubignè, nata da un matrimonio contratto (da Costante
d’Aubignè) per fuggire dalle carceri colla figlia del bargello, collocatasi a
servire il poeta Scarron, considerava come un onore il diventare la moglie di
quell’uomo stimato pel suo sapere. Lo divenne, e rimase vedova. Fu posta, come
sappiamo, a servire i figli che Luigi XIV aveva avuti dalla marchesa di
Montespan. Da quella condizione passò a far dimenticare gli amori al re, e
guadagnarselo al punto di essere sposata da lui e dichiarata marchesa di
Maintenon, la confidente del re, l’arbitra della Francia, e la più desolata,
triste ed annojata donna che vivesse forse nel regno. Chi avesse data speranza
al padre Ganganelli solamente di un buon vescovato, si sarebbe creduto di
adularlo, ed esso avrebbe nel vescovato ravvisato il colmo della felicità. A chi
alla d’Aubignè, serva del poeta, avesse fatto sperare un nobile agiato marito,
sarebbe accaduto lo stesso. Se si fosse pronosticata la somma altezza a cui
erano destinati, essi avrebbero creduto di morire di gioja al giugnervi, e in
effetto dovettero morire di tedio e di amarezza. Un grosso volume si potrebbe
fare di simili racconti; ma ogni uomo, per poco di sperienza che abbia, troverà
degli esempj nelle persone da lui conosciute alle quali alcuni onori ambiti
hanno diminuita la pace e la felicità coll’ottenerli. Gli onori e i titoli sono
come i deliziosi profumi, che gli abituati a inzupparsene più non li sentono, o
li sentono con indifferenza, mentre l’uomo volgare che prova una voluttuosa
sensazione, accostandosi ad essi, li crede circondati da una perenne deliziosa
atmosfera. Così i ministri, i cortigiani, i titolati, gli insigniti di onori,
ornati di gemme, d’oro, di nastri, ossequiati, distinti, per lo più meritano la
compassione anzi che l’invidia. La mancanza d’ambizione e l’eccesso allontanano
ugualmente dal ricercare gli onori: nel primo caso non si cercano per
indolenza; nel secondo non si cercano, perchè quello che gli uomini credono
grande, è un piccolo oggetto per noi.
Chi era mai il primo favorito del re di Spagna, che vivea
contemporaneo a Cervantes? Non lo so. Mentre questo favorito grande di Spagna,
cavalier del Toson d’oro, generale degli eserciti, ecc., ecc., ecc., circondato
da una brillante caterva di schiavi, riceveva nel fasto e nel seno
dell’opulenza le adorazioni dei grandi e del popolo; mentre credeva egli che
tutto l’universo lo ammirasse, e le più remote età dovessero venerarlo, lo
sconosciuto Cervantes mal vestito, mal alloggiato, al lume d’ una lucerna scriveva
il suo romanzo, il Don Chisciotte. Probabilmente si sarebbe trovato ardito
Cervantes, se avesse pensato di far conoscere al reale favorito la sua piccola
esistenza. La morte troncò l’illusione. S’ignora il nome del grande coperto di
onori, e per tutta l’Europa è tanto famoso il romanzo del Cervantes, che pochi
uomini viventi sono al dì d’oggi tanto conosciuti quanto lo è egli. Le
avventure che Cervantes s’immaginava nella sua povera oscurità, sono il
soggetto di quadri, di arazzi, di stampe che adornano le sale dei re ed i
gabinetti degli uomini di gusto. Il bel romanzo gira in più lingue nelle mani
d’ognuno; da quello si cavano i soggetti per gli spettacoli teatrali. Uomo che
sconsigliatamente sei abbandonato ai crucciosi e difficili desiderj di onore,
conosci il loro vacuo, ed anticipa a vederne l’annientamento, e se hai un
nobile sentimento di non cessare d’aver sì tosto vita, volgiti alle belle arti
ed alle scienze. Un Galileo, un Cavalieri, un Tasso, un Ariosto, un Palladio,
un Tiziano, un Raffaello, persino un Pergolesi e un Corelli, vivono e vivranno
nomi cari e venerati all’Italia, mentre l’obblivione ha per sempre cancellati i
nomi de’ contemporanei loro, i quali, oppressi dalla copia delle condecorazioni
e delle ricchezze, allra non ebbero che gl’innalzasse dal volgo fuor che
onorificenze. Volgiti, se cerchi la felicità, alla vera gloria, a render te
stesso maggiore del comune degli uomini col numero, colla importanza e col buon
ordine delle tue idee; dilata il tuo cuore alla virtù pura, ferma, incorrotta,
che sta sulla base propria adamantina e non cambia per cambiamento di opinioni,
fedele ai doveri d’uomo, di cittadino, di figlio, di sposo, d’amico; sia la tua
promessa infallibile, la tua asserzione la verità, cauto custode del tuo
secreto e dell’altrui; tollera con fermezza l’avversità e con moderazione il
destino secondo; sensibile al merito altrui, l’onora sempre in chiunque, anche
in un inimico, se sventuratamente ne hai senza essertelo meritato; sii giusto,
discreto, benefico, e ti riderai di chi corre ansioso agli onori, possederai tu
stesso un tesoro di onore che nessun uomo può dare, che i malvagi istessi
venerano, e che a misura che crescerai negli anni sempre più ti renderà
generalmente l’oggetto della riverenza degli uomini.
Con questo esame adunque l’uomo, usando della ragione, può
diminuire la schiera d’innumerevoli desiderj e strappar di mano al reo destino
tanti fili, co’ quali viene incautamente strascinato alla infelicità.
§ IV. — dell’accrescimento del nostro potere.
Le due principali sorgenti de’ nostri desiderj sono le già
indicate, cioè ricchezza ed ambizione. Una terza ve n’è, ed è quella de’
piaceri fisici; propriamente così detta perchè gli ha immediatamente per
iscopo. Anche di questa terza avrei potuto parlarne, ed avrei potuto provare
che anche le sensazioni voluttuose, passando dalla immaginazione alla realità,
perdono costantemente, e che la maggior parte delle inquietudini nostre non
derivano tanto dalla esigenza della organizzazione, o dalla vera forza
dell’oggetto, quanto dalla esagerazione che ne fa la nostra fantasia. Perocché
un attento esame può diminuire realmente questa magia produttrice d’inadempiuti
desiderj figli dell’errore e farci preferire la vigorosa alacrità de’ moderati
alla svogliata indolenza di chi logorando gli organi animatori della vita si
priva del più esquisito stato de’ spontanei fisici bisogni. Io però non mi
trattengo su di questo soggetto, perchè lo stato degli avidi di denaro o
d’ambizione permette a chi ne sente i desiderj l’esame di essi, anzi suppone un
esercizio continuato della ragione bene o male adoperata per il conseguimento
di que’ fini. Ma l’amore, la gola, e simili desiderj hanno più adesione
all’organica struttura nostra, e sono un ingordo appetito, un delirio,
piuttosto che uno stato capace di ragione; quindi poco gioverebbe lo scriverne.
Altronde, l’uomo può per anni e lustri soffrirei tormentosi, e vani desiderj,
de’ quali ho trattato; ma assai più breve è il periodo de’ desiderj fisici, i
quali o si saziano o svengono naturalmente col tempo, e per ciò meno
interessano la felicità della vita intera. Finalmente l’argomento è troppo
difficile a trattarsi colla severità della sola ragione, ed è più confacente
alla penna d’Ovidio che lo espose in facili e leggiadri versi, anzi che alla
placidezza di un ragionamento. Perciò, trascorse le due fonti de’ più dannosi
desiderj nostri, conosciuto di quanto la ragione possa liberarcene, passo a
divisare i mezzi onde accrescere il nostro potere.
Prima base del poter nostro è lo stato fisico della nostra
organizzazione. A condizioni uguali dammi due uomini, uno sia vegeto, l’altro
soltanto abbia qualche difficoltà allo stomaco caricato di troppo cibo;
annunzia a ciascuno di questi due uomini una piccola disavventura: vedrai il
primo rimanere quasi tranquillo e l’altro sensibilmente affliggersene. Noi
medesimi possiamo farci testimonio, se dopo esserci addolorati e irritati
talvolta con molta pena, liberali poi da taluno dei dolori innominati, dei
quali nell’altro discorso trattai, ci troviamo noi medesimi stupiti che per
così piccola cosa abbiamo perdute delle ore di pace e di calma. Ciò posto,
molto dipende da noi stessi e dal buon uso che facciamo della ragione nostra il
mantenere più vigorosa la condizione dello stato nostro fisico. L’abuso de’
piaceri fisici ci snerva e indebolisce, seco guida dappoi malattie;
l’intemperanza nel cibo, l’eccesso nelle bevande, la vita neghittosa e
sedentaria, l’abituazione a’ troppi comodi tendono tutti a indebolire il nostro
poter fisico. Il potere, ossia la robustezza del corpo nostro può accrescersi
con una ragionata cura di noi medesimi lontana ugualmente e dalla superstiziosa
cautela e dal cieco abbandono agli attuali capricci. Le cognizioni delle cose
naturali possono mollo contribuirvi, almeno per non affidare la nostra vita
all’arbitrio d’un ignorante medico; ma l’arte di conservare la sanità più utile
e più sicura degli incerti tentativi, che fannosi per lo più per ricuperare la
perduta, è in mano nostra, se sappiamo essere moderati consultando la ragione e
la propria sperienza. Così l’uso attento della ragione può conservare ed
accrescere la robustezza de’ nostri muscoli e con essa la forza dell’animo, e
quindi renderci più disposti ad agire e respignere i mali non solo, ma
resistere e pareggiare un numero di desiderj, giacché anche alla gloria e ad
altri beni non si cammina se non con passo fermo e giocondo.
Oltre il sentimento delle proprie forze fisiche, coraggio
macchinale che accresce il poter nostro, un altro sentimento è necessario
all’uomo per avere un’esistenza ferma ed un coraggio perfetto, e questo
sentimento necessarissimo è la coscienza tranquilla. L’uomo reo che sa di aver
commesse azioni vili e indegne, sebbene nell’oscurità abbia tessute le insidie,
sempre è angustiato dal timore che sieno svelate: un’occhiata, un gesto
fortuitamente equivoci lo sgomentano: ei porta nel cuore una malattia più
disgraziata di qualunque fisica imperfezione. Il disprezzo degli uomini che sa
di meritare, il loro allontanamento che può aspettarsi, e mille tristi pensieri
abituali nel cuore di un uomo che cammini per la strada del vizio, imprimono
nel suo volto a solchi marcati la tristezza; lo sguardo inquieto e torbido, il
passo circospetto e sospettoso sono tanta diminuzione del di lui potere a
fronte dell’aspetto sereno, libero e fermo dell’uomo che obbedisce alla virtù.
Vera è che alcuni cattivi uomini hanno talvolta l’arte mimica di contraffare
l’uomo giusto; ma qual peso il rappresentare ogni giorno tutt’altro ohe noi
stessi! Questo sforzo non toglie l’interno avvilimento. Si può disputare qual
de’ due renda più omaggio alla virtù, se quello che essendo vizioso lascia
vedere in fronte la tristezza del rimorso, ovvero chi si sforza a rappresentare
l’uomo virtuoso: entrambi la pregiano, perchè l’uno è avvilito, per non averla,
l’altro fa sforzi per contraffarla. Sono due debitori; il primo si dichiara
fallito, il secondo paga con moneta falsa: entrambi hanno l’avvilimento nel
cuore.
Per accrescere adunque e conservare il poter nostro conviene
che l’interno sentimento di noi sessi, che è il più giusto e inesorabile de’
nostri giudici, ci sia favorevole. Lo spirito umano ha i suoi confini: l’errore
ben sovente ci si presenta sotto il sembiante della verità. Non pretendo io già
che un essere debole e imperfetto non possa mai, rivolgendosi al passato,
trovare qualche fatto proprio che meriti pentimento. Ognuno ne ha; ma facendo
noi molto uso della riflessione in tutti gli atti importanti della vita, non ci
accaderà di commettere di quelle azioni che degradano ed avviliscono l’uomo. La
buona coscienza è il sentimento della conformità delle azioni nostre colla
giustizia, e la giustizia comprende la fedele obbedienza alle leggi. Le leggi
fissate dall’Autore dell’Universo sono semplici e invariabili; ma dove gli
uomini ne hanno stabilite, le debolezze, gli errori, le mire private vi hanno
sì fattamente contribuito, che talvolta s’incentrano dubbj, e fa mestieri
d’avere la ragione ben addestrata per districarsene. Il ministro del santuario
insegna all’uomo la strada della giustizia religiosa: il mero ragionatore, che
ricerca i mezzi della felicità costanti in ogni luogo e tempo, e comuni anche
agli uomini viventi sotto false religioni, può guidare gli uomini assai vicini
al santuario istesso, partendo ancora da’ più meccanici principj; perchè una
verità non può smentire un’altra verità, e da più principj fisici o morali,
purché sien veri, concatenando una verità all’altra, si può giugnere alla
stessa dimostrazione.
Mi si conceda che la fuga del dolore e l’amore del piacere sia
una legge universale sempre ubbidita dagli esseri sensibili: ne verrà da questo
principio che l’uomo sceglier deve per essenza la somma minore de’ dolori e la
maggiore somma de’ piaceri. Una beatitudine eterna e infinita è maggiore di
qualunque bene finito. Un’infelicità eterna e infinita è maggiore di qualunque
dolore finito. Da ciò ne deriva che l’uomo non deve mai cercare i piaceri che
sono vietati dalla legge divina, nè ricusare i dolori che la legge divina ci
obbliga di sopportare. Come avviene dunque che gli uomini facciano l’errore di
calcolo di preferire il meno al più? Perchè le sensazioni degli oggetti
presenti agiscono quasi sole sull’animo, e la riflessione, alla quale pochi
uomini si addestrano, non pone dicontro se non pallidi e scoloriti contrasti:
quindi si compra sovente un piacere attuale a prezzo di un dispiacere molto
maggiore a venire. Quanto adunque l’uomo sarà illuminato, tanto più saprà
antivedere e contrapporre agli oggetti presenti i lontani, ed accostandosi alla
esattezza del calcolo, preferire la maggior somma de’ piaceri e la minore de’
dolori: quindi quanto più si accosta l’uomo alla perfezione del ragionamento,
tanto più sarà nella strada della giustizia religiosa, e si terrà lontano da’
rimorsi.
Quelle religioni che autorizzano azioni contrarie all’onestà,
sono false: la vera religione è sempre offesa, quando sia violata la onestà.
Chi vivesse sotto un falso rito, nondimeno, ascoltando anche la sola ragione,
dovrebbe esattamente ubbidire alle leggi dell’onestà, siccome tanti illustri
Greci e Romani hanno fatto; perchè qualunque piacere è minore della somma de’
dispiaceri che si ricevono dagli uomini, qualora si ha il concetto di essere
malonesto. Il disprezzo, l’allontanamento, gl’insulti, l’insensibilità a’
nostri mali sono i sentimenti che legge scritti in faccia degli uomini colui
che si allontana dalla onestà, ed è più facile l’essere onesto che il portarne
continuamente la maschera. In oltre, offendendo le leggi della onestà, col
tradire un secreto, coll’insidiare il merito, col calunniare, rapire, essere
ingrati, mentitori ecc., nasce in noi un sentimento di disprezzo di noi
medesimi che è il più crudele di tutti, ed una vile timidezza compagna del
rimorso che scema il poter nostro, togliendoci la buona coscienza. Quindi freddamente
concludo che la mera ragione può contenere l’uomo nella strada della giustizia
morale, s’egli la eserciterà abitualmente. Felici, quelle anime nobili e
sublimi che per amare la virtù non hanno bisogno di ragionamento, che sentonsi
ingrandire e innalzarsi colle virtuose azioni, e rapite dalla vittoriosa
potenza di questa fiamma celeste, sono benefiche e generose per la vivissima
voluttà che provano in quello stato!
Se lo stato disordinato della nostra organizzazione o
dell’animo nostro ci rende timidi e avviliti in diminuzione del nostro potere,
e se, per conservarcene tutta la porzione possibile, dobbiamo colla saggia
moderazione non meno che colla frequente riflessione mantenerci lo stato fisico
e morale libero dal mal essere, per accrescere questo potere e così poter
pareggiare una più vasta porzione de’ nostri desiderj, ci fa bisogno d’avere in
favor nostro i suffragi degli uomini o almeno non averli contrarj. Questi o si
comprano o si conquistano, ovvero si rendono indifferenti con una vita oscura,
ma conforme alle leggi. I Romani, daché la virtù repubblicana era svanita, si
vendevano, e a preferenza davano i loro suffragi a chi più lautamente sapeva
comprarli con cene pubbliche, largizioni, spettacoli, combattimenti di fiere,
gladiatori e simili piaceri gratuitamente accordati. Così seppero coprire la
loro tirannia anche i primi Cesari, e, fiancheggiati dalla plebe sazia e lieta,
impunemente annientavano gli ottimati e li depredavano, ubbidendo così al
timore, alla vendetta ed alla avidità propria col concedere alla fame
particolare le spoglie in parte della preda. Non vi sono oggi nell’Europa di sì
grandiose compre e vendite, perchè non vi è nazione che possa paragonarsi a
Roma, ne’ tempi di sua grandezza: non è però abolito l’uso di comprare più in
piccolo i suffragi del popolo anche a denaro; e ciò non potendo accadere nelle
monarchie ove il popolo nulla può dare se non la buona fama, forza è il
cercarne le memorie negli Stati ove a suffragi pubblici si facciano le elezioni
alle magistrature. Le ricchezze servono a comprarci un suffragio di breve
periodo, a meno che non sianvi i mezzi per rinnovare questi periodi istessi,
siccome l’avevano i primi imperadori; e saranno impiegate opportunamente
qualora con esse acquistiamo de’ beni superiori alla perdita che facciamo.
Comunemente però i suffragi degli uomini si sogliono comprare, facendo che essi
generalmente acquistino una ferma opinione favorevole di noi, della virtù,
bontà e ragionevolezza nostra. I caratteri più opportuni per acquistare questa
generale opinione sono gli uomini che non operano a scosse e ad impeto, ma con
movimenti placidi ed uniformi: nemmeno in conseguenza possono essere gli uomini
d’ingegno caldo o d’immaginazione violenta: la figura nostra, che non ci siamo
fatta noi, molta parte vi può avere: una maniera di agire e di mostrarci
nobile, dolce e sensibile, popolare con dignità, è la migliore di tutte. Tutti
questi mezzi poco dipendono da noi e dall’uso della nostra ragione; quindi la
compra dei suffragi pubblici o per denari o per maniere, è da considerarsi come
un bene riservato a pochi. Chi è disposto dalla sua condizione e stato a
poterselo procurare, opera sapientemente nel farlo; e chi non ha i mezzi per
comprare i suffragi positivi, opera sapientemente almeno coll’evitare i suffragi
contrarj, come poi dirò.
Si conquistano i suffragi degli uomini prevalendoci
accortamente della loro imbecillità, e facendo in essi nascere un timido
sentimento della debolezza loro in paragone nostro; così si legano a noi gli
uomini col vincolo il più forte di tutti che è il timore. Ciò si fa o
interessando le intelligenze sovrane nella nostra azione, ovvero manifestando
una decisa superiorità di coraggio, virtù che sola in ogni secolo e presso ogni
nazione ha saputo costantemente ottenere gli omaggi degli uomini. Il pericolo
di questa conquista cresce a misura della violenza con cui si tenta; ma insieme
col pericolo cresce la forza dell’impressione. Ma per conservarci i suffragi
così conquistati e per goderne, forza è persuadere almeno quella porzione
d’uomini che ci fiancheggia e ci rende preponderanti, essere loro interesse di
stare uniti con noi. Più in piccolo si conquistano anche i suffragi della
moltitudine, ottenendo una carica, per cui gli uomini aspettino bene o male
dalle nostre azioni. Questi mezzi pure per accrescere il poter nostro sono
riserbati a pochi, e il primo a pochissimi; e sebbene accrescano il potere,
anche assai di più moltiplicano i desiderj, onde non sono i trascelti da’ veri
saggi che ricercano la propria felicità.
Si rendono indifferenti i suffragi degli uomini e si toglie
loro l’occasione di restringere il nostro potere, sottraendoci a’ loro sguardi
con una vita oscura e rigorosamente conforme alle leggi. Questa rigorosa
conformità è indispensabile per contrapporre al sentimento di superiorità, che
gli uomini rumoreggianti nel vortice sociale hanno pei solitarj, quello
dell’aperta ingiustizia, se ne fanno uso. Questo è il partito meno pericoloso
d’ogni altro e meno soggetto a’ capricci altrui, ed è quello appunto che è stato
ordinariamente prescelto da’ saggi.
§ V. — DI ALCUNI
CONTRASTI FRA LE LEGGI.
La virtù è la base della felicità, siccome si è osservato, e
nelle varie leggi alle quali siamo soggetti, talvolta trovansi degli inviluppi
così intralciati che fa d’uopo di molto uso della ragione per ritrovare il filo
delle azioni nostre e preservarci da’ rimorsi. Abbiamo le immortali leggi
prescritteci dalla divinità. Abbiamo le leggi civili; abbiamo quelle
dell’onore. Gli uomini in alcuni casi sì fattamente le hanno combinate, che
sembrano cozzare e distruggersi a vicenda.
Ho ricevuto un’offesa; la religione mi ordina di perdonarla;
la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice;
l’onore mi eccita a vendicarla col mio braccio. Sono fra il peccato, il
supplizio e l’infamia. La vita del principe Stuardo pretendente alla corona
della Gran-Brettagna era posta a taglia, dichiarato reo di Stato chiunque gli
desse asilo; il pretendente sconfitto, dispersi interamente i suoi partigiani;
senza soccorso, solo, languente di fame, freddo e lassitudine, dopo aver
passato un giorno appiattato in un cespuglio, intorno cui giravano i nemici per
prenderlo, venuta la notte, si presenta alla casa d’un gentiluomo del contorno:
— Vi porto, gli disse, un felice annunzio. Dieci mila lire sterline sono
vostre: sol che il vogliate, potete aver la taglia promessa a chi consegnerà il
principe Stuardo. Eccolo nelle vostre mani: son io, senza difesa; disponete
dell’ultimo infelice rampollo dei vostri re, ovvero, se le mie disgrazie
v’inteneriscono, soccorrete la mia fame, ricoveratemi ed assistetemi per uscir
dall’isola. — Che partito doveva prendere il gentiluomo? Egli ristorò
l’infelice principe, lo celò, lo imbarcò alla più sicura occasione. Fu
processato; la legge era chiara, come chiara la contravvenzione: per tutta
difesa chiese a ciascuno de’ suoi giudici che avrebbono essi fatto nel suo
caso, e fu liberato. Ma fece egli un’azione giusta e virtuosa, ovvero debole e
viziosa? Era egli permesso ad un generoso e nobile uomo di soggiogare e
impadronirsi d’un nimico reso impotente, e che volontario gli si affidava? Che
ne avrebbero giudicato gli uomini che ubbidiscono ad un valoroso onore? Era
egli permesso il conservare e dare la libertà ad un inimico del proprio re, di
cui la vita poteva cagionare nuovi torbidi e guerre civili? Potevasi
contravvenire ad un legittimo proclama? Hai data la tua parola d’onore di
conservare un secreto; si pubblica una legge che obbliga a manifestare gli
autori dell’azione che tu sai sotto il sacro vincolo. Altra pubblica legge ti
offre una ricompensa, e con pubblico editto l’invita ad uccidere un uomo; ma la
religione e l’onestà gridano: Non tradire, non uccidere: come condurrommi in
questo orribile labirinto?
In queste spinosissime situazioni trovandosi l’uomo anche
buono e virtuoso, talvolta è in pericolo di fare una scelta di cui poi s’abbia
a pentire ed averne rimorso. La riflessione però mi può dare il filo per
rettamente condurmi. La prima di tutte le leggi è la divina: è mio dovere di
sacrificar tutto all’ubbidienza di un essere maggiore di tutti. Il mio dovere è
pure di non mancare mai alla virtù. Se un ragionatore esalto mi ricercherà cosa
significhi questa voce dovere, io mi accontenterò, quand’anche si voglia
renderla un’emanazione d’interesse. Interesse sia quella general voce che
comprende le azioni che ci sono utili, e dovere sia quella porzione delle utili
azioni che sono conformi alle leggi; il primo sia il genere, l’altro la specie.
Non ogni interesse sarà un dovere, perchè vi sono delle azioni che la legge ha
lasciate in libertà. Interesse poi contrario alla legge non è possibile che si
dia; poiché sarebbe una contraddizione il dire che sia nostro interesse
comprare un piacere che portain conseguenza un male più grande di lui. Si dà un
apparente interesse momentaneo contrario alla legge, perchè il bollore delle
passioni per alcuni periodi distrae l’uomo dal ragionare, e allora sta il
pericolo di abbandonare il cammino della giustizia; ma ogni uomo che a mente
calma e ragionando travia dal proprio dovere, dà, a mio credere, la più
evidente di tutte le dimostrazioni di avere un vizio nella facoltà
ragionatrice. Mi si cercherà pure cosa io intenda di significare colla parola
virtù. Io non intendo di comprendere sotto questo vocabolo gli atti del culto
religioso, ma unicamente di significare quella classe di azioni che per
consenso generale degli uomini in ogni tempo, in ogni luogo, costantemente
furono considerate virtuose: perdonare generosamente all’inimico, essere
fedeli, grati, liberali, umani, valorosi, giusti, e, per comprendere il tutto
più brevemente, l’esercitare gli atti utili in generale agli uomini.
Perciò l’animo virtuoso sarà quello che ha un costante
desiderio di fare cose utili in generale agli uomini. Ora, siccome l’onestà ci
porta a guardarci dalle azioni dannose ai nostri simili, ed è nostro interesse,
siccome di sopra ho detto, d’ubbidire alle leggi dell’onestà, così
evidentemente se ne deduce essere nostro dovere di non mancare alla virtù.
Ciò posto, per conoscere, fra le contraddizioni angustiose
delle leggi, cosa esiga da noi la virtù, conviene esaminare nella scelta quale
dei partiti che ci si affacciano produca un effetto più utile in generale agli
uomini. Convien calcolare se sia più il bene che si fa agli uomini svelando un
secreto, e liberandoli da uno che è giudicato pernicioso alla quiete pubblica,
ovvero se sia maggiore il male di autorizzare col proprio esempio un freddo
tradimento ed un legale assassinio. Per fare esattamente questo calcolo,
conviene esaminare altresì lo stato attuale della società in cui ci troviamo.
Formiamoci un’idea d’una società d’uomini tanto perfettamente
organizzata, quanto ce la può somministrare la nostra immaginazione. Suppongasi
un’isola nell’Oceano, ove gettati due fanciulli da una tempesta sieno divenuti
col tempo i patriarchi d’un nuovo popolo, cresciuto co’ secoli al segno di
poter formare una nazione. Questa moltitudine d’uomini mossa da’ bisogni,
mancante d’idee complesse (frutto di una lunghissima tradizione, e che non si
accumulano se non dopo lo stato di civilizzamento), avrà ubbidito
principalmente alle impressioni degli oggetti che attualmente ferivano i suoi
sensi. Quegli uomini erano allora indipendenti, nè vi sarà stato fra di loro
che la robustezza diversa o la diversa scaltrezza che potesse mettere limite
alle azioni altrui; e l’impero era tutto nella forza. Ma come la minor forza e
la minore astuzia è propria del maggior numero, così in quello stato la parte
massima della nazione avrà dovuto soffrire la prepotenza. Quindi la sicurezza
nelle proprie capanne, la tranquillità nella custodia de’ frutti raccolti pel
proprio cibo, la pacifica convivenza colla propria donna essendo sempre in
pericolo, gli abitanti furono indotti a collegarsi per formare colla riunione
di più forze un contrasto. Dopo varie parziali associazioni ancora disuguali, e
forse rivali e guerreggianti, la durevolezza de’ mali indusse un uomo più
accorto a proporre un’associazione stabile, pacifica, universale. Così venne
abolito il feroce muscolare dispotismo, e così si venne a circoscrivere il
numero delle azioni di ciascun uomo, vietandogli quelle che si opponessero alla
sicurezza e pace d’un altro uomo, reso con certe leggi fattizie sicuro di
conservare sé stesso, i frutti della sua industria, la donna sua e i suoi
figli. Così ciaschedun uomo si spropriò di parte della sua indipendenza per
acquistare la libertà, e passò la nazione allo stato sociale. Così venne a
stabilirsi un diritta di proprietà.
Ma le società degli uomini, gli Stati, le repubbliche e i
regni d’Europa hanno essi mai ne’ loro annali i documenti di simile
associazione primitiva? Quest’isola immaginata altro non è che una finzione la
quale niente ha di comune colla realtà de’ nostri diritti. Così può chiedermisi
ragione della genealogia degli Stati immaginata non meno a piacere da alcuni
filosofi, di quello che alcuni antiquarj lo facciano nelle famiglie. Io accordo
che della rimota infanzia delle società non ci restano memorie, nè potevano
lasciarcele gli uomini prima dello stato d’incivilimento e della invenzione
della scrittura: arte che sarà stata delle più tarde a trovarsi, e
conseguentemente inventata in que’ tempi, ne’ quali la memoria
dell’associazione primiera non poteva essere più presso degli uomini. Accordo
di più che, forse indipendentemente da ogni convenzione, un uomo solo più
ardito, più illuminato o più scaltro, può avere cominciato a dominare sopra i
suoi figli, e con essi forzare altre famiglie ad unirsi a lui, e così, creatasi
una potenza, soggiogare un popolo colla sola forza e col fatto. Ma se la sola
forza desse un diritto, ne verrebbe l’assurdo che la sola resistenza lo
potrebbe togliere. Perciò quell’origine dello stato sociale non sarebbe fondata
sulla giustizia, ma sulla mera usurpazione e violenza, nè potrebbe nascere un
diritto che posteriormente, quando cioè l’esercizio del potere venisse così
saggiamente adoperato, che equivalesse all’immaginata spontanea primitiva
associazione.
Il fine adunque dell’immaginato patto sociale è il ben essere
di ciascuno che concorre a formare la società; il che si risolve nella felicità
pubblica, ossia nella maggiore felicità possibile ripartita colla maggiore
uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana.
Ovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele al
patto sociale, ivi i doveri e i diritti d’ogni uomo sono chiari e sicuri, ivi è
interesse di ogni socio che si osservino le leggi per le quali sussiste;
giacché violandole ecciterebbe gli altri a rimettere in vigore la forza, si annienterebbe
la libertà, risorgerebbe la selvaggia indipendenza. Ivi le leggi non possono
mai essere in contraddizione colla virtù, perchè le leggi tendono alla felicità
pubblica; e la virtù, siccome ho detto, avendo per oggetto gli atti utili in
generale agli uomini, non si può mai cercare la felicità pubblica con atti
dannosi generalmente al genere umano. Questa età dell’oro però è un’immagine
deliziosa, ma tanto vana quanto la perfetta felicità nell’uomo. Non s’è data,
nè si darà nel mondo una società così esattamente organizzata, dove ogni atto
della podestà pubblica sia una spinta verso la pubblica felicità, e dove quella
classe d’uomini presso i quali ne viene depositato l’esercizio non travii mai,
non declini e non ne abusi. Poiché, qualunque sia la forma del governo, sempre
un numero d’uomini ha influenza nel maneggiare la forza pubblica, e questi
uomini sono soggetti all’errore alle passioni e alle debolezze e imperfezioni
della nostra specie.
Una società traviata da’ principj costituenti la giustizia
sociale e condotta alla corruzione, lascia per l’opposto incerti i doveri e i
diritti di ogni socio, e confuse sono le azioni d’ogni uomo. La felicità
condensata in pochi, il fasto, l’orgoglio di questi sempre più amareggiano lo
stato di miseria e di annientamento di molti. Le leggi sono un atto di potere
arbitrario, la diffidenza, la dissimulazione, la viltà serpeggiano in ogni
ceto: si teme la verità, si fugge la vista d’una virtù più luminosa, il di cui
baleno è troppo forte scossa alle deboli pupille della moltitudine. In questa
società gli uomini restano tranquilli come l’acqua nelle pozzanghere; e di
questa società perciò non ne vedi lo scioglimento, perchè le membra isolate dal
timore e concentrale, non osano accostarsi fra loro e riunirsi a distruggerla.
Ivi la maggior parte di chi la compone non ha interesse a mantenerla, ma
soltanto a’ non essere autore della dissoluzione.
Fra questi due estremi trovansi comunemente le società; onde,
per risolvere ne’ casi di conflitto fra le leggi civili e quelle dell’onore,
sarà da calcolare, se facciamo più male agli uomini, indebolendo col fatto
nostro le leggi dell’onore, ovvero indebolendo le leggi civili. Le prime tanto
più diventano utili agli uomini in generale, quanto meno lo diventano le
seconde; anzi le prime s’annienterebbero e diverrebbero superflue, quanto più
le seconde si accostassero allo scopo della istituzione sociale; perchè essendo
l’onore la legge dell’opinione universale degli uomini, ed opinando in questa
parte con liberi suffragi tutti i membri della società per accordare stima o
disprezzo alle azioni, a misura che sono o generose è nobili, ovvero abbiette e
codarde, non potrebbe mai l’opinione universale libera degli uomini
disapprovare l’obbedienza alle leggi che tendono anche alla maggior felicità di
ciascun uomo, per quanto è possibile il combinare gli interessi di tutti.
Quindi in una società traviata e condotta alla sua corruttela, sembra che sia
un’azione più utile in generale agli uomini il rinforzare le leggi dell’onore,
acciocché almeno non tutte le azioni vengano depravate dalla cattiva
legislazione; e in una nazione più bene condotta, a proporzione che si andrà
accostando all’originaria giustizia, sarà più utile azione il rinfiancare
l’obbedienza a quelle leggi civili che sono garanti della civile libertà e
della felicità pubblica. Con tali principj sembra che possano sciogliersi i
difficili problemi delle legislazioni che si contraddicono; e così il saggio
uso della riflessione anche in queste inviluppate indagini può indicarci la strada
della virtù onde ci preserviamo da quell’avvilimento in cui ci precipita il
rimorso, e conserviamo il vigore dell’animo, la buona coscienza e il potere
maggiore, onde pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VI.—DELLA CONOSCENZA DI NOI E DEGLI UOMINI.
Affine di sviluppare e porre nella massima attività il poter
nostro è necessario che ci occupiamo profondamente per conoscerci e conoscere
gli uomini. Conosci te stesso, ò un antico e verissimo precetto della sapienza,
il quale in poco indica la perfezione della grand’opera a cui debbono tendere
le ben dirette nostre meditazioni. Poche sono le anime privilegiate che
resistano ad un tranquillo e continuato esame di loro medesime, e la maggior
parte degli uomini sono come deboli ammalati che temono la vista delle proprie
ulceri. Cerca la moltitudine di slanciarsi lontana da sé medesima: quindi
l’abbonimento della solitudine e il bisogno perenne o d’una conversazione
qualunque ella siasi, o di un lavoro, o anche di un libro che occupando le
nostre idee ci faccia uscire da noi medesimi e ci trasporti ne’ palazzi
incantati del regno della immaginazione. Così la vita de’ più si risolve in una
costante obbedienza agli urti degli oggetti presenti, a’ quali rarissime volte
la riflessione contrappone l’immagine degli oggetti lontani: onde mutandosi pel
moto universale o la distanza o l’apparenza degli oggetti, galleggiano le menti
umane sopra di uno instabilissimo fondo, sempre fluttuanti dall’amore all’odio,
dal disprezzo alla stima, con un’apparente contraddizione, ma che meglio
esaminata si risolve in una costante adesione al medesimo principio. Il saggio
che cerca la propria felicità, conosce che questa non può essere collocata
altrove se non nel mezzo del suo cuore; si ripiega in sé stesso e attentamente
considera quali sieno i movimenti, le cure, i desiderj che lo agitano, e d’onde
traggano questi l’origine; ascende a questi primi germi delle inquietudini, e
pone sulla esatta bilancia la realità o la chimera della opinione produttrice;
l’attento esame accompagnato dalla dubitazione, madre della sapienza, gli sta
al fianco; separa le verità dalle opinioni; pone nella prima classe quelle
solamente che hanno subito il cimento; e ritornando spesse volte a rimirare se
stesso nella tranquillità, ed ivi richiamandosi le vestigia dei passati
tumulti, divisa i mezzi onde scemare le turbolenze cagionate dai desiderj di
beni chimerici, ovvéro di beni non conseguibili, col passare dalla
dimostrazione alla persuasione, il che si fa con atti ripetuti. Rivolgendosi
poscia all’esame dei mezzi onde conseguire i beni che gli convengono, accresce
il potere per rendere minore, quanto è fattibile, l’eccesso de desiderj sopra
di quello. Da questa interna analisi di noi medesimi nasce il gran bene che
possiamo sentire con una sorta d’amicizia di noi stessi la contentezza di
esistere, di renderci conto de’ principi che ci movono: il che ci dà una
ragionata compiacenza di noi medesimi, poiché sentiamo la distanza vera e reale
che passa fra noi ed i volgari, e la non fattizia superiorità nostra, in ciò
che noi possiamo essere con noi medesimi; laddove quelli portano sempre il loro
nemico nel cuore, se non altro il tedio della propria esistenza; e questo
sentimento accresce il vigore del nostro animo e il nostro potere.
Per conoscere me medesimo io non cercherò che gli altri uomini
mi dicano cosa io mi sia, nè quanto io valga; il giudizio più esatto l’ho da
fare io stesso, e lo potrò fare se mi esamino. La imbecillità degli uomini
m’innalza al disopra del mio vero orizzonte, per poco che mi sorrida la
fortuna; l’orgoglio e l’invidia degli uomini vorrebbero persuadermi ch’io valgo
meno di quello che è infatti se mi abbandono a giudicare di me stesso dalla
apparente stima degli altri, sarò un uomo passivo e comune; gli onori mi
ubriacheranno e mi faranno cambiare portamento e morale; una traversia mi
annienterà e mi farà strascinare nel fango l’avvilita esistenza; passerò la
vita ora schiavo, ora tiranno, e non mai uomo, nè felice. Io esaminerò me
stesso, e vedrò se una azione generosa mi lascia l’animo in calma. Se conservo
la pace interna all’udire un’azione infame, dirò: Il mio cuore è
disgraziatamente insensibile; il mio animo è sinora incapace di elevazione;
sono pur troppo un uomo comune e gregario. Ma se la voce della virtù rimbomba
nel mio cuore; se le azioni nobili, eroiche, benefiche fanno stillare dalle mie
palpebre un dolce pianto; se rabbonii nazione e la viltà mi eccitano un vivo
sdegno e ribrezzo, dirò allora: Sono capace di virtù, sono un uomo, e posso
innalzarmi alle belle azioni. L’amor proprio non può sedurmi, perchè si tratta
di un fatto. Per giudicare poi delle forze del mio ingegno, io vedrò se le
opere di que’ primi maestri che onorano la nostra specie mi siano
intelligibili, esaminerò se nel mio cuore vi sia una calda stima per gli uomini
di merito, e con ciò avrò la misura dell’elevazione della mia mente. Il
contrasegno più sicuro di ogni altro per conoscere se vagliamo è la sensibilità
e l’entusiasmo per il merito altrui; nessun grande uomo ha mai avuta gelosia o
invidia del sapere altrui; questo pusillanime rannicchiamento del cuore è
figlio dell’incertezza del nostro merito, e suppone un’anima volgare.
Nelle opere di eleganza e di gusto è necessario il ricorrere
all’opinione altrui, perchè le leggi e le regole sono poco precise, e il
riuscire dipende dalle opinioni, da’ tempi e da’ luoghi. Io non cercherò ad un
altro uomo, se quello ch’io scrivo sia vero o falso, se sia dettato dalla
virtù, ovvero dal mal animo; cercherò bensì dall’opinione d’uomini colti e
onesti, se la verità e la virtù nel mio scritto sieno annunziate con chiarezza,
con facilità, con ordine, con varietà, con ornamento, perchè questo risguarda
l’impressione che deve fare uno scritto sugli animi altrui, di cui non posso
avere certezza anticipatamente entro di me medesimo. Così il poeta, il pittore,
l’architetto, lo scrittore di musica, lo scrittore qualunque non può nella
solitudine giudicare esattamente del proprio lavoro, ma forza è che ricerchi
l’opinione di alcuni per decidere sul merito del suo talento, e consigliarsi
affine di perfezionarlo. Ma il merito del tronco maestro, dirò così, cioè
dell’elevazione del cuore e della forza del nostro ingegno noi soli possiamo
giudicarlo. Se la certezza non comincia in noi, su i fatti che accadono nel
nostro interno, non è possibile che siamo mai fermi e sicuri di veruna
dimostrazione.
Conosciuto ch’io sia a me medesimo; definita ch’io abbia la vera
e nuda altezza in cui mi trovo riposto; spogliato ch’ io mi sia de’ titoli e di
quant’ altro di posticcio mi dia la sorte, abituato a entrare ne’ penetrali del
mio essere, a conoscerli, ad esaminare le vicende del mio animo, io mi trovo
collocato sopra di una base profonda e immobile, d’onde più fermamente rimiro
il giuoco delle umane vicende; e sebbene debole ed isolato io possa ricevere e
mali e beni dal concorso delle cose che si muovono intorno di me, nè il favore
d’una fortuna capricciosa farà ch’io mi pregi più di quello che valgo, nè gli
insulti di lei faranno che io mi creda meno di quello che sono. Sarò ora lieto
ed ora tristo, ma non mai insano; e questa fermezza d’un animo che s’innalza
sopra il destino e sta immobile nelle vicende, è il più gran bene che ci possa
dare la ragione, e allora l’uomo acquista il massimo potere per resistere
all’infelicità; il che sta rinchiuso nel precetto: Conosci te stesso.
L’uomo poi che sia destinato a convivere, un altro esame deve
intraprendere sopra di sé medesimo per fare il miglior uso del proprio potere,
e non adoperare sforzi inutili e stentati fuori della propria carriera, e
quest’esame è il riconoscere il proprio lato forte ed il proprio lato debole.
La figura e l’indole di un uomo lo invitano alla piacevole giocondità. Sarebbe
un uomo di spirito amabile; disgraziatamente si è trascelto maniere gravi e
sentenzioso discorso: è un Catone forzato, nojoso, che nessuno può stimare. Per
l’opposto niente è più sconcio di quella stentata occupazione che si è imposta
un altro di voler rallegrare con frizzi e sali che la natura non gli ha
concessi; se rappresentasse il carattere d’un uomo sensato e placido, godrebbe
di migliore riputazione. Questi sarebbe un elegante scrittore se non si
ostinasse a comporre per il teatro, per cui manca di genio. Quegli è un
esattissimo ragionatore, e non vuol scrivere che freddissimi e bassissimi
versi. Sarebbe immensa la schiera, se dovessi accennare i varj casi, ne’ quali
l’uomo si presenta svantaggiosamente per non avere esaminato meglio so medesimo
e trascelta l’occupazione conveniente al proprio talento. Il saggio se ne
occuperà, esaminerà sé stesso, farà diversi tentativi, starà in attenzione qual
sentimento risveglino negli astanti, e senza avventurarsi incautamente, colla riflessione
e colla sperienza troverà la strada per lui più naturale, sicuro che quello che
costa sforzo ha sempre cattivo contorno e riesce disgustoso, e che l’imitazione
è sempre stentata e spiacevole. In tal guisa coll’esame di sé medesimo il
saggio acquista il massimo potere e la massima industria per farne buon uso per
la propria felicità.
Se alla nostra felicità molto possono contribuire gli uomini,
conviene esaminarli, conoscere con accurata osservazione i principj che ti
muovono, talvolta sconosciuti a loro stessi, e dedurne quindi una notizia
esatta di quanto possiamo da essi sperare o temere. Il luogo che occupa un
uomo, poco o molto inganna comunemente; uno sciocco titolato e un uomo di sommo
merito inerme e povero sono rimirati con un vetro di mezzo; fra l’occhio e il
primo, il vetro è convesso; fra l’occhio e il secondo, è concavo il vetro; e
così si pregia il primo più, e il secondo meno del vero. Se l’ordine della
società e la nostra pace richiedono da noi dei riguardi e degli ossequj,
facciasi; ma non passi il cerimoniale all’anima, la quale libera e sciolta deve
esaminare e pesare esattamente il merito dell’uomo. Il saggio sta attento
contro di questa seduzione tanto più forte quanto sempre attiva, e si fida de’
giudizj proprj solamente allora che mutandosi la fortuna, altrui, non sente
cambiarsi internamente l’opinione.
Se da un canto esamini di quanto sia stato capace l’uomo, ti
si presenta un pomposo ammasso di gloria che ti sforza a venerarne l’ingegno e
la sublimità. Vedi questo vivente sprovveduto di armi, vinto dalla maggior
parte degli animali nella vista, nell’udito, nell’odorato e nel corso; vedilo
viaggiare sicuramente sull’instabile superficie dell’immenso Oceano,
attraversare gli antipodi, e cingere col suo viaggio il globo. Osserva con
quanta sagacità ha inventate le voci sì varie, col mezzo delle quali comunica
a’ suoi simili i suoi pensieri. Poco era questo ancora; cerca di parlare a’
lontani, cerca di conversare co’ suoi posteri e inventa la scrittura e la
perfeziona al ponto non solo di palesare esattamente i movimenti del suo animo,
ma di palesarli piacevolmente con grazia e con venustà. Vedi
quest’industriosissimo essere creare a sé stesso nuovi organi per supplire alla
debole sua vista: e con essi è giunto a contemplare distintamente molti oggetti
che la picciolezza o distanza rendevano insensibili. Conosce allora i corpi
celesti, ne calcola la posizione, la grandezza, il moto, e anticipatamente ne
annunzia l’eclisse e l’apparenza. Cava di mezzo ai monti i metalli, e ne forma
stromenti per la difesa e mezzi per formarsi nuove mani ai più sottili e
difficili mestieri. Un piccolo orologio solo da tasca basta a provare quanto
possa la mano grossolana dell’uomo diretta dall’ingegno. Gira per le botteghe,
passa dallo stampatore, dal fabbricatore di calze a teiajo, dal tintore ecc.
Esamina le biblioteche, que’ vastissimi emporj di molti sogni e di alcune
verità, e ammirerai l’altezza a cui l’uomo può giugnere. Ma dall’altra parte
qual contrasto non fa a sì nobile prospettiva il riflettere come gli Stati
d’Europa miseramente sagrifichino ogni anno molte migliaja di vittime umane per
possedere e coltivare nell’America, mentre nel centro dell’Europa vi sono vasti
deserti, e ciò per rendere nell’Europa più abbondante l’oro e l’argento, conseguentemente
meno pregevole, e conseguentemente più voluminoso il trasporto di quella merce
che è l’universale permuta delle altre! La milizia d’Europa, quel terribile
stromento della potenza e della sicurezza, ancora non è vestita in modo d’aver
libero e facile il moto, e d’essere difesa dal nemico o dalla stagione. I
pubblicisti disputano se un uomo appartenga alla nazione, ovvero la nazione ad
un uomo. I giurisperiti hanno posta l’incertezza nelle proprietà. I medici,
poco conoscendo e molto affermando, più ammazzano che non risanino. Il mondo è
quasi tutto diviso in due classi; la piccola è di quelli che ne impongono, la
grande è di quelli che ciecamente si sottomettono: stanno confusamente
amalgamati nella mente dei più il bene e il male; e il commercio d’uomo a uomo
comunemente si riduce alla creazione di qualche infelicità che si divide in
eguali porzioni. Nel conoscere queste tristi verità l’uomo che abbia nel cuore
una feroce virtù diventa misantropo, disprezza e abbomina la propria specie; ma
il vero saggio al penoso sentimento dell’odio ne sostituisce un più giusto e
più umano, cioè la compassione degli errori della moltitudine.
Come mai l’uomo che ha trovato le leggi della gravità, quelle
della luce, quelle de’ movimenti celesti, ancora non ha trovato un codice che
limiti e decida pacificamente la proprietà d’un cittadino? Io credo che la
ragione stia nella natura istessa dell’uomo. Nella nostra specie vi sono alcuni
pochissimi, i quali sono dolali di una forza d’ingegno e d’una costante
passione per cercare la verità e la gloria, talché essenzialmente trovansi in
una classe moltissimo innalzata sul livello degli altri. Bastano cinque o sei
di tali uomini che nascano uno dopo l’altro per condurre alla somma perfezione
una scienza; e questo edificio lo innalza ciascuno nel silenzio della
solitudine non attraversato dalle opinioni o dalle rivalità di alcun uomo.
Fatto che sia poi, il risultato si mostra a più uomini, e molti anche di coloro
i quali non avrebbero avuto forza e ardire per portare nuovi materiali ad
innalzare l’edificio, ne hanno per esaminarlo e salirvi. Ma negli oggetti che
risguardano gli interessi pubblici, l’uomo che sarebbe capace d’innalzarsi,
viene o escluso o contrastato, a meno che quest’uomo non sia nato sul trono.
Perciò i regolamenti politici essendo l’opera di più uomini sono come le strade
delle grandi città fatte in origine più a caso che a disegno, e i sistemi sono
tanto capricciosi e irregolari quanto la pianta d’una città, perchè sì queste
che quelle nascono dal risultato dei comodi che ciascun privato ha cercato di
ottenere, e non dal disegno d’un architetto che avesse in mira un tutt’insieme,
il comodo, la facilità e l’eleganza. Le opere d’un uomo che agisca da sé,
possono essere un tutt’insieme, e talvolta prodigiose e sublimi: le opere
concertate da molti uomini insieme, che a forze eguali si uniscono, sempre
saranno difettose e incongruenti. Di tante accademie di scienze che ha l’Europa
nessuna ha formato col suo concorso un Galileo, un Newton. Nessun’accademia di
pittura ha formato un Rafaello, un Correggio, un Tiziano. Nessuna accademia di
poesia ha formato un Tasso, un Ariosto. Un ceto d’uomini non farà mai cosa che
oltrepassi la mediocrità.
L’uomo comunemente è debole; anche sotto di un aspetto libero
e sereno sta covandosi nel cuore il timore. Questo timore è il padre della
gelosia, dell’invidia e del sospetto. La debolezza permette a pochi il
ragionare; pochi resistono alla fatica d’un lungo esame. La moltitudine ha
ribrezzo per ogni azione vibrata, sia nel bene, sia nel male; loda le virtù
facili e sociali, ammira le virtù un po’ elevate, ma le azioni veramente
sublimi o non le sente, ovvero le sente con ribrezzo, perchè danno troppo forte
scossa alla debole sua esistenza. Cessa adunque, o saggio, che cerchi la tua felicità,
di esigere dagli uomini quella generale ragionevolezza che ripugna alla loro
costituzione, e in vece di affliggertene allorché non la trovi, rimira ciò come
un regolare fenomeno della nostra specie. Se ami d’essere superiore colle forze
della tua mente e del tuo cuore, non isdegnarti adunque se negli altri tu trovi
mente e cuore più deboli; hai con ciò la dimostrazione della superiorità tua
sopra de’ volgari; essi camminano ad occhi bendati brancolando, e tu li vedi.
Svanisce con ciò una classe di impossibili desiderj, e si accresce il
sentimento del tuo potere.
§ VII. — DEI MOVIMENTI
DEL CUORE.
Le verità sinora sviluppate ci staccherebbero affatto dagli
uomini e ci concentrerebbero a vivere con noi medesimi, se non avesse
provvidamente riposti l’Autore eterno della natura due principj nel nostro
cuore: la compassione e il bisogno di amicizia. La vista d’un animale morto
eccita un’emozione violenta nell’animale vivo della specie istessa, e
soffrendone con dolore la vista se ne allontana con ribrezzo. Le grida del
dolore d’un animale svegliano la sensibilità di altri animali della specie
medesima, e si vedono penosi accorrere e inquieti attrupparsegli d’intorno.
Questa legge non è comune a tutti i viventi, ma soltanto a molte specie, e
quella dell’uomo vi si comprende. Indipendentemente dalla ragione, sembra quasi
per istinto che l’uomo alla vista d’un altro uomo che sia addoloralo patisca, e
da questo patire come per simpatia ne deriva la voce compassione. I bambini
fanno ridendo delle azioni crudeli, e sono insensibili talvolta a’ mali altrui,
perchè non hanno idea di quello che soffre l’oggetto che hanno presente; ma
l’uomo comune ancora soffre nel vedere soffrire un suo simile, e a meno che non
si sia con replicati atti costantemente incallito alla vista de’ mali, le fibre
con un intimo fremito lo portano anche macchinalmente a desiderare il fine del
male altrui. Pochi uomini reggeranno a starsene la prima volta col giudice
criminale, che fa da’ sgherri slogare le ossa a un infelice colla tortura, ovvero
col litotomo [2], che taglia l’uomo vivo per estrarre la pietra; e ascoltando
l’agitazione interna l’uomo non incallito farà cessare lo spasimo altrui, se lo
può, o almeno si allontanerà colla fuga dall’atroce spettacolo. Se questa
macchinale irritabilità si risguarda dalla ragione, potrà un austero e duro
stoico consigliarci d’indebolirne la forza coll’uso di assistere agli spasimi
altrui: ma se un più umano e più illuminato filosofo considera questa
sensibilità del nostro animo come la benefica sorgente delle umane virtù, se a
questa conosce appartenere la bontà del cuore, la fratellanza, la dolcezza, la
sociabilità nostra, consiglierà in vece di ben custodirla, e di tenercela ben
cara e preservata da qualunque azione che ne diminuisca la più squisita
palpitazione. Questa è l’organo morale, questa è quel sesto immaginato senso
che ci porta a soccorrere gli afflitti, i bisognosi, gli addolorati, anche
prima che la ragione ce lo suggerisca; e le nostre, azioni verso il bene sono
sempre più energiche, quando parlano da una spinta di sentimento di quello che
riescono quando ne ha anticipatamente compassato il cammino la tranquilla
ragione. Se la strada della felicità fosse quella del vizio, io suggerirei di
soffocare questo senso di compassione nel nostro animo, e ridurci a potere
indifferentemente essere spettatori de’ mali altrui; ma siccome il potere del
nostro animo e l’energia del coraggio nostro non reggono, se non abbiamo un
nobile sentimento dalla coscienza nostra, che ci risponda dell’elevazione di noi
medesimi (il che non può aversi se non a misura che siamo virtuosi), così
questa disposizione macchinale alla virtù è nostro interesse il conservarla, il
raffinarla, l’accrescerla affinchè siamo felici. La virtù nata dalla sola
ragione ci fa essere giusti, fedeli, discreti e circospetti; ma quella che
parte dal sentimento, ci fa essere generosi, affettuosi, benefici: la prima
tende più a sottrarre dalle nostre azioni il male, la seconda ci spinge con
azioni positive al bene.
Un limite però sarà da porsi a questa benefica sensibilità del
nostro animo, e questo la virtù istessa ve lo pone, cioè quando per essere
utili e benefici convenga reprimere il ribrezzo per il patimento altrui. Molti
sono i casi della vita ne’ quali, per soccorrere e liberare altri dal male,
conviene reprimere quella macchinale sensibilità che ci renderebbe attoniti e
inoperosi, o ci farebbe volgere alla fuga; e allora la buona direzione di noi
stessi ci farà rivolgere ai mezzi del soccorso per i modi meno turbolenti, e
più sicuri e brevi; ed occupato in questa ricerca industriosamente il saggio,
distraendosi da una troppo viva compassione, moltiplicherà le azioni virtuose,
e si renderà sempre più robusto per allontanare sé medesimo dalla infelicità.
Questa compassione de’ mali altrui non si trova che
languidissima, sì in coloro che hanno avuto poche occasioni di soffrire, come
in quelli che fortissime e frequentissime ne ebbero. Le fibre perdono la loro
sensibilità egualmente o nel letargo, o nell’abuso delle ripetute sensazioni.
Se un uomo giovane, ricco, amabile, educato fra gli agi, vivente fra le ridenti
dissipazioni, vedrà un pallido padre di una numerosa famiglia, lacero,
abbattuto dal dolore, mancante di mezzi per dar pane agli affamati e languenti
figli, leggermente lo scaccerà come importuno, non già per orgoglio nè per
avarizia, ma perchè non ha idea del dolore che soffre quel misero. Lo stesso
compassionevole oggetto presentato a uno schiavo che da più anni vive a un
remo, nessuna emozione cagionerà, perchè la sensibilità dello schiavo è stata
incallita dai mali proprj. La squisita sensibilità, che rende le anime delicate
e raffinate nel sentimento, sarà massima in coloro che avendo idea de’ mali e
provatili per qualche tempo, innamorati delle attrattive della virtù, avvezzi a
rendersi conto de’ sentimenti, non abbiano l’animo intorpidito da assoluta
mancanza di passioni, nè assorbito da una passione violenta che annienti ogni
altro movimento.
Le infermità, la tristezza, le passioni, le debolezze inerenti
alla nostra costituzione diversificano per modo i varj momenti della vita, che
se non abbiamo chi ci consoli, chi ci consigli, e chi persino talvolta pensi in
vece nostra, siamo abbandonati alla desolazione, e come isolati o smarriti in
uno squallido deserto, esposti non di rado a farci dei mali talvolta
irreparabili: ecco la fonte dell’amicizia, nome sacro e venerabile, troppo
profanamente adoperato da ogni classe di persone. Il bisogno di avere un amico
è piccolo negli uomini d’un carattere duro e poco sensibile, è grande negli
animi delicati e afflitti o dalla fortuna ovvero dai mali fisici, è quasi nullo
negli uomini posti in superiore fortuna, sani e lieti, negli ambiziosi degli
onori, negli avari, ne’ maligni e in tutti coloro i quali debbono temere di
lasciarsi conoscere quali internamente sono. Se tranquillamente esamineremo i
beni e i mali che in noi produce il bisogno dell’amicizia, dubito che ne sarà
per comparire una verità poco consolante. Sono tanto rari i caratteri
meritevoli d’essere amici, sono tante e tanto volubili le passioni dell’uomo,
che, cercandoti un amico, il rischio è fortissimo d’essere finalmente deluso.
In conseguenza di ciò gli antichi lasciaronci quel ferreo precetto di trattar
sempre coll’amico, come se un giorno dovesse diventare inimico; precetto il
quale consiglia realmente a non avere amicizia per alcuno. Conosco che questa
sarebbe la strada per vivere più sicuri e indipendenti: ma qual vita sarebbe
mai la mia se mi considerassi, vivendo fra gli uomini, d’essere attorniato da
velenosi serpenti, e se dovessi, sempre in agguato, sempre in guardia, avere la
diffidenza in ogni lato! Comprerò io la felicità sagrificando il più nobile
sentimento che mi rende sopportabile la vita? Io stimo che sia men male
l’avventurarsi talvolta anziché l’esistere così solitario. Tristo colui che non
può mai essere ingannato; egli ha un cuore di ghiaccio, ed è incapace del
sublime entusiasmo della beneficenza! Il non diffidar mai degli uomini è
imbecillità; il diffidarne sempre è un error feroce e tristo. Chi conosce gli uomini
vede che essi non sono nè buoni, nè malvagi totalmente per lo più; che essi non
fanno il male se non per errore, credendo di far del bene a loro medesimi.
Perciò l’uomo che cerca la felicità non soffocherà nel suo animo il dolce
bisogno dell’amicizia, ma nella scelta ascolterà lungamente la sola ragione;
fatta poi che l’abbia, si abbandonerà al suo cuore.
Prima di sceglierti un amico, esaminalo attentamente, ed
osservalo in varie circostanze felici e meste, pacate e turbolente. Sia egli
uomo illuminato e docile alla ragione; la maggior parte dei mali si fanno per
ignoranza. La probità d’un uomo che ragioni è fondata su de’ principi; la
probità d’un uomo che non ragioni è appoggiata ad una parola. Sia egli libero
dall’avidità delle ricchezze, dalla briga e dall’affannosa fame degli onori. Le
anime ulcerate da tali passioni sacrificano tutto a quelle. Sia d’un carattere
aperto, dolce, discreto. Osserva se il racconto d’un’azione generosa faccia
comparire nel suo volto il senso della virtù, se il racconto d’un’infamia
dipinga sulla di lui fisonomia il ribrezzo. Guai alle fronti di bronzo che
conservalo inalterabilmente i loro tratti! Esamina se infatti sia
compassionevole a soccorrere l’infelice e a consolarlo; se non mai si avvilisca
a incensare il vizio armato di potere; se sia fedele alle promesse; se abbia il
sublime coraggio di dare il torto a sé medesimo, quando la verità lo esiga; se
sia buon vicino, buon padrone, buon marito, buon padre, buon figlio; e se regge
a questo esame l’uomo che cerca la tua amicizia, donagliela, amalo, travaglia
per la di lui felicità, che probabilmente egli farà per te altrettanto.
L’amicizia poi non può nascere, nè durare senza una
scambievole uniformità di genio. Due onesti uomini saranno talvolta non
solamente incapaci di amarsi, ma difficili persino a tollerarsi, come due
stromenti musicali accordati sopra diversi tuoni. Suppone l’amicizia una
capacità di sentire vivamente le passioni istesse che prova il nostro amico.
Tanti uomini illustri e fra gli antichi e fra i nostri contemporanei hanno
scritto sull’amicizia, che io non oserei di trattarne; nè questo discorso mi
porterebbe a dilatarmi più a lungo su questo delizioso argomento. Osserverò
solamente che vi vuole moderazione per conservarci gli amici anche ne’ benefici
medesimi. Un cumulo di beneficenze umilia chi le riceve, e fa risguardare
l’uomo che le ha versate come un creditore che non potremo soddisfare giammai.
Bisogna temere che nasca un tal sentimento in uno che sia nostro pari: l’uomo
di cuore vuol sempre che siavi la spontaneità ne’ proprj sentimenti, e che la
riconoscenza istessa non sia tanto un dovere, quanto un affetto. Quanto è più
perfetta la legislazione di uno Stato, tanto meno vi è bisogno dell’amicizia;
questa è più costante ed intensa ne’ paesi dispotici, che non lo sia laddove le
leggi conservino al cittadino la sicurezza d’ogni proprietà; perchè sotto un
governo violento e capriccioso ogni uomo si sente vacillante e in pericolo, e
s’avvicina al suo simile per rinforzo ed ajuto; e per lo contrario sotto un
governo giusto e costante l’uomo ha un’esistenza propria all’ombra delle leggi,
e nulla temendo la forza altrui, per la strada della virtù franco cammina senza
bisogno di soccorso.Sotto la sferza della scuola d’un pedagogo, fra i pericoli
delle armi, fra le inquietudini d’una lunga navigazione si contraggono amicizie
forti e durevoli; ma nelle società che chiamano di bel mondo, gli uomini
passano la vita senza accostarsi all’amicizia. I caratteri che ne sono capaci
non sono ordinariamente facili a trovar piacere nelle comuni società: quel
cicalio che basta a parecchi, li lascia annojati e scontenti, perchè poca parte
vi ha l’ingegno e meno il sentimento.
Se poi dopo avere trascelto un amico colla prudente
disposizione che la ragione c’insegna, troverà il saggio di essersi ingannato,
soffrirà un male, ne sentirà il dolore nel mezzo del suo cuore; ma sarà questa
una sventura, come una febbre da riguardarsi come un appannaggio della nostra
sensibilità. Gl’incauti per lo contrario che senza esame attento si gettano fra
le braccia di chi si chiama amico, quando si lagnano dell’ingratitudine degli
uomini, soffrono il castigo del loro errore. L’uomo opera in conseguenza de’
principj che ha, e non in conseguenza dei principj che gli attribuiamo noi a
capriccio. Esamina l’uomo, osservalo, adopera intensamente la tua ragione, e
quella ti porrà sulla strada onde la compassione istessa e il bisogno
dell’amicizia invece d’indebolire il tuo potere lo accrescano, cosicché per
questi due sentimenti tu diverrai ancora più lontano dall’infelicità col
pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VIII. — SE I MEZZI PER VIVERE FELICI
CRESCANO OVVERO SCEMINSI IN QUESTO SECOLO.
Io non entrerò a divisare i principj e i mezzi co’ quali si
promove e dilata la felicità d’uno Stalo; sarebbe questo un argomento che da sé
meriterebbe un volume, nè ardirei cimentare le mie forze con un si vasto
oggetto. Unicamente cerco di conoscere, se gli uomini che attualmente vivono,
abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla felicità di quelli che le
circostanze passate offrirono ai nostri maggiori. Questo paragone può essere
consolante. Se da principio si è osservato dovere ogni uomo nel còrso della
vita più soffrire che godere, e la miseria essere più vicina all’uomo che non
la felicità; almeno contro di questa dura verità riporremo l’altra più ridente,
ed è che i mezzi per sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che
gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi. Se la
prima verità ci disinganna d’uno stato chimerico, e ci fa volgere a conoscere
la reale condizione nostra, e porre ordine e sistema al nostro ben essere; la
seconda ci rincora a meglio sopportare una vita coll’esempio de’ nostri simili
che seppero sopportarne una più penosa. Gli uomini occupati della erudizione
storica sanno questa verità. Il Muratori in cento luoghi si consolava della
felicità de’ costumi e de’ governi in paragone de’ trasandati; io ne presenterò
un compendiosissimo prospetto.
Tutto è in moto nell’universo. Volgo il pensiero ai tempi più
rimoti ai quali giunge la storia, e vedo in prima i Greci animati da un
violento amore della gloria nazionale uscire dagli stretti confini del loro
paese, e rotolarsi come un torrente devastatore sull’Asia e sull’Africa,
soggiogando le genti attonite, che stupidamente presentavano il collo al giogo
del vincitore. S’invecchia la Grecia, sorge Roma, e il vigoroso genio
conquistatore inalbera le aquile latine, e si strascinano al Campidoglio i re
incatenati dell’ammollita Grecia, dell’Asia e di molta parte d’Europa. Passa la
robusta virilità dall’Italia al Settentrione, ed escono dalle nere foreste
dell’Orsa le generazioni d’uomini, che dall’Eusino e dalla Germania, invadendo
il Romano Impero, tutto distruggono, niente sostituiscono: lottano con altri barbari;
poi, indeboliti a poco, a poco per la sicurezza i loro imperj, vengono
anch’essi dagli Arabi e dai Franchi soggiogati e distrutti. L’urto possente e
ripetuto delle nazioni finalmente le infranse, e si spaccarono in molte piccole
suddivisioni bilanciate dal reciproco potere, e gli Europei, nei quali il
cambiamento non aveva del tutto cancellato il bisogno di occuparsi di oggetti
grandi e turbolenti, corsero a migliaja a cercarli persino nell’Asia Minore.
Questa furiosa tempesta andò per gradi calmandosi, e meno spumanti ed elevati
ne divennero i flutti: quindi per molte generazioni indebolendosi e la memoria
delle cose passate e l’educazione, comparve agli occhi degli Europei inciviliti
barbaro lo stato de’ loro padri. Le forti passioni della gloria e della
sicurezza della nazione si eclissarono; il lusso e la mollezza riposero sul
trono i tiranni, e sulla faccia della terra gli schiavi. Le nazioni cessarono
allora d’esistere per loro stesse, e divennero un mero patrimonio de’ principi,
i quali col gius feudale ne regalavano porzione agli amici. Le guerre allora si
mossero per motivi personali de’ principi, i quali condussero al campo una
mandra di pecore coperte di ferro e macchinalmente guidate: spettacolo ben
diverso da quello che formavano in prima gli uomini a guisa di generosi leoni
usciti da’ loro covili, sebbene entrambi avessero il nome di guerra. Le
ricchezze dovettero decidere della vittoria fra armale di schiavi mercenari
limitati a non mancare ai doveri imposti, privi dell’emulazione di sorpassarli;
piccole perciò erano in que’ tempi le armate, e mantenute colle rapine che il
tiranno faceva a’ sudditi. Si venne al punto di trovare esausti i mezzi per
radunar denari, e in conseguenza per difendersi. La Spagna li ritrovò nelle
miniere del Potosi; tutte le Potenze si riscossero, si pensò a partecipare di
questi nuovi mezzi, si rianimò l’agricoltura, si rianimarono le arti, si pensò
alla popolazione, alla marina, al commercio; si conobbe che la pubblica
sicurezza è l’unica madre dell’industria, e il potere capriccioso ed arbitrario
ne è l’esterminatore. Quindi alcune nazioni per non deperire nella forza
relativa adottarono una forma di governo stabile e legittima, sotto cui altre
vi si avvicinarono, e da quel momento o fu abolito, ovvero diminuissi il
dispotismo e la tirannia. Da quel punto sino al dì d’oggi i vantaggi delle
nazioni più giustamente governate sono andati sempre più crescendo in Europa; e
i sovrani trovansi nella fortunata alternativa o di rendersi come tributarj
delle nazioni ben governate, o di ben governare e promovere la sicurezza, la
libertà civile e la felicità del popolo.
La repubblica delle lettere sparsa per tutta l’Europa, se per
lo passato era considerata come una società di curiosi che si occupavano di
oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha cambiato aspetto.
L’astronomo t’insegna ad attraversare con sicurezza il vasto mare. L’ottico ti
prepara ano stromento con cui tu vedi oggetti lontani perfettamente. Il fisico
ti perfeziona il magnetismo, e ti addita anche fra le tenebre la strada. Il
macchinista ti suggerisce la miglior forma delle navi e gli stromenti i più
maneggevoli e sicuri. Il chimico ti ammaestra a cavar profitto delle miniere, e
a preparare le manifatture co’ più raffinati colori. L’agricoltura, le finanze,
il commercio, l’arte di governare i popoli, questi sono gli oggetti che
occupano gli uomini di studio. La stampa e le poste, comunicando da una
all’altra estremità dell’Europa le scoperte, danno una vera esistenza a questo
corpo di pensatori dispersi. Questi oggetti non furono giammai, dacché la
storia ci ha trasmesso i racconti, conosciuti a tal segno; nè le cognizioni e
gli studj così in alto portati, nè mai tanta connessione vi fu tra gli studj e
la felicità delle nazioni quanta al dì d’oggi; e se al ceto de’pensaiori fa
torto la ciarlataneria di alcuni che abusano di un misterioso linguaggio per
arrogarsi una considerazione non meritata, i principi attenti ai veri loro
interessi, e i popoli illuminati non perciò lasciano di promovere e incoraggire
la luce universale, al lampeggiare di cui sarà forza che anche i paesi più
torbidi d’Europa si scuotano, a meno che l’estrema loro decadenza non tolga in
prima loro la vita. Tale è il moto adunque che in questo secolo ha l’Europa,
onde con fondamento prevede il saggio che la libertà civile delle nazioni dovrà
dilatarsi. Quando ciò sia fatto, rinascerà l’antico vigore negli animi,
l’antica guerra di nazioni e non di principi; e per questo circolo passeranno
in giro le nazioni europee, come le stagioni dell’anno sulla terra. Vediamo in
fatti i sovrani che sedono sul trono occupati a sciogliere la schiavitù del
popolo, accessibili, umani, cittadini: li vediamo rappresentare la maestà della
nazione, e vegliare sulla felicità di essa, in guardia contro l’abuso del
potere de’ grandi, accostarsi con bontà ai poveri e deboli, e sostenerli colla
giustizia e la beneficenza; i tributi ripartiti con proporzione, riscuotersi
con umanità, imporsi per bisogno dello Stato, e servire allo stipendio di
quella parte di sudditi, i quali per consecrarsi alla difesa della nazione
forza è che sieno alimentati dal possessore di cui conservano la proprietà o
combattendo, o dirigendo le cose pubbliche, o rischiarando i diritti di
ciascuno e frenando i malvagi. Se ascendesse sopra un trono in Europa un
malvagio simile a quelli che servirono di modello al Segretario Fiorentino; se
i fogli pubblici raccontassero le tirannie che nel secolo XV accadevano quando
nella Lombardia il duca Giammaria Visconti passeggiava per le città scortato da
ferocissimi mastini, ai quali ordinava di sbranare quei cittadini che
sospettava sensibili al pessimo suo governo; se ci informassero i fogli
pubblici dei veneficj, assassinj, torture, rapine commesse abitualmente per
comando d’un sovrano, affine di alimentare i suoi vizj, di corrompere colla
violenza le donne altrui, di assoldare sgherri per rinforzare l’oppressione; un
tal mostro sarebbe tanto abbominevole, vile e stravagante, che non si
presterebbe credenza a un tal racconto, egli Stati suoi si spopolerebbero,
correndo gl’infelici abitanti a ricoverarsi sotto il governo degli Stati
vicini. Ma tre secoli sono un tal governo non era mostruoso, perchè tale era
quella che allora chiamavasi ragione di stato. Io non dirò che tutti gli Stati
d’Europa abbiano interamente deposta la barbarie antica: ognuno però conosce
che si è di molto scemata, e con essa l’infelicità: giacché si può bensì
disputare se l’uomo fra gli Urani e gli Iroquesi sia più felice che a Roma, a
Londra o a Parigi, ossia se lo stato selvaggio sia più fortunato dello stato di
incivilimento, ma nessuno disputerà se lo stato di barbara e corrotta società
sia più misero dello stato di società celta e legittima. Nella vita selvaggia
può dirsi che l’eccesso de’ desiderj oltre il potere sia poco, perchè quelli
sono limitati quasi a’ soli bisogni fisici, e questo è grande coll’agilità e
robustezza del corpo non ammollito dalla educazione. Nello stato di società i
desiderj sono infiniti, perchè nascono dalla fecondissima opinione sovrana
degli uomini sociali, e il potere si accresce dal canto dell’industria e si
scema da quello delle forze fisiche; ma
se in questa società spira la barbara diffidenza, se l’esistenza e la
proprietà diventano precarie, se dalla fonte dell’equità e della giustizia sgorga
il terrore e la devastazione, il potere di ogni uomo è vacillante, e l’eccesso
de’ desideri diventa sommo. Si è forse trovato un ingegnoso paradosso,
piuttosto che una verità, la proposizione che siano più felici i selvaggi che
gli uomini sociali; perchè si è creduto che con ciò si facesse il progetto di
richiamare gli uomini alle selve, e perchè l’uomo incivilito ha supposto che il
selvaggio abbia tutti i bisogni ch’ei sente, e mancando di mezzi per
soddisfarli conseguentemente rimanga disperato come ei lo sarebbe; ma la
quistione è un oggetto di semplice speculazione; nè mai da questa potrà
dedursene, che dopo una comoda e molle educazione possa l’uomo passare allo
stato selvaggio senza rendersi infelicissimo. Anzi, nessun altro partito resta
da prendersi per le società già formate, se non se quello di portarsi alla
perfezione ed al massimo incivilimento con ottime leggi, ottimi costumi, e con
ogni genere di coltura, addestrando la ragione e l’industria, ed affrettando i
progressi della verità, fugando le opinioni a lei contrarie, e rendendo comune
l’uso di essa a’ cittadini in quante azioni della vita si può.
Ho accennato che tutte le società sono in moto e lo furono; ho
dato una rapida corsa sul fato delle società europee; non per ciò ho inteso di
fissare il limite delle vicende generalmente delle umane società: al mio
intento basta soltanto di indicare quello che interessa noi medesimi. Se poi
nell’Asia, che forse in origine fu la patria antica anche di noi, l’indole del
clima rende gli uomini più spossati, e capaci soltanto di conservare uno stato
forzoso e violento per periodi più brevi; se ivi i governi dispotici,
antichissimamente istituiti e sino al dì d’oggi mantenuti, altre vicende non
soffersero se non il cambiamento del despota; se i costumi, le opinioni, i
vestiti che da noi cambiano, ivi immobilmente durano per lunga serie di
generazioni; ciò non contraddice alla storia d’Europa, e unicamente confermerà
la opinione della influenza massima del clima sul genere umano. Ma da noi, sia
effetto della maggiore robustezza, sia quello della irritabilità e inquietudine
maggiore, credo che non sarebbe possibile il contenere lungamente una nazione
in uno stato somigliante a quelli della Persia, della Cina o del Giappone.
Dal sin qui detto raccogliesi, che l’uomo ha più mezzi
oggigiorno per essere felice che non ve ne furono giammai; che questi dipendono
da’ lumi e dalle cognizioni che ci hanno somministrate le scienze; esse
dominano l’opinione, e questa il mondo. Il saggio le onora, e sopra di ogni
altra coltiva la scienza di sé medesimo, e perfeziona la ragione per migliorare
sé stesso, per formarsi idee chiare e precise degli oggetti, e accostumarsi a
un metodo di giudicare più lontano dall’errore che sia possibile, e
incamminarsi alla felicità, rischiarando il sentiero che vi conduce.
CONCLUSIONE.
La felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso.
Se gli uomini, che pure tutti avidamente si uniformano nel correre dove credono
di trovare la felicità, adoperassero le loro forze della mente per esaminare se
la strada per cui smaniano di correre vi conduca, non cadrebbero così
miseramente in braccio al tardo pentimento, come la maggior parte fanno. Gli
Stoici c’insegnarono a spogliarci di ogni desiderio per togliere ogni presa al
destino sopra di noi; chimera rispettabile, ma pure chimera, perché l’uomo
senza alcun desiderio sarebbe immerso in un profondo sonno. Zenone voleva che
il saggio fosse come una robusta quercia, che all’accostarsi de’ venti
dell’inverno lascia cadere le foglie e dà meno presa, e immobilmente ne soffre
il soffio; ma la ragione c’insegna a liberarci da’ desiderj contrari a lei e
procurarci il potere massimo per uguagliare quanto si può i nostri desiderj. La
ragione ci fa conoscere che è il nostro interesse l’essere virtuosi; che la
virtù sola può condurci a vivere men male i nostri giorni. Molti, anche uomini
colti e naturalmente disposti al bene, si sono gettati in braccio alla
bassezza, al rimorso, alle contraddizioni, per non aver credulo abbastanza alla
virtù. Il saggio non si sgomenta, nè cambia di parere, sebbene veda preferiti,
agli onori i caratteri talvolta meno virtuosi, dimenticate le azioni nobili e
ricompensate le servili; non cambierebbe perciò lo stato proprio coll’apparente
fortunato, nè la sicurezza interna che gode colla turbolenta condizione ch’ei
penetra a conoscere nell’interno altrui. La felicità del saggio comincia da
lui, e si estende poi agli oggetti, il volgare incautamente ne cerca il germe
fuori di sé medesimo, mentre la prima si estende al di fuori di sé lentamente,
e per gradi si accresce come i cedri superbi che insensibilmente vegetano, ma
reggono alle stagioni; l’altra come gli arbusti acquosi e gracili rapidamente
cresce, e muore al primo gelo. Un antico poeta desiderava che l’uomo malvagio
vedesse per un momento la virtù, e si annienterebbe di confusione; io vorrei,
che gli uomini la vedessero, la conoscessero, e ne sentirebbero il bisogno,
anche per loro immediato interesse, di conformarvi le loro azioni. Dammi un
uomo virtuoso ed illuminato, ed io ti proverò che se fosse stato maligno e
stordito, sarebbe in peggiore condizione di quella che gode. Dammi un uomo
senza virtù e senza principj, posto dalla fortuna per oggetto d’invidia, e ti
proverò che se fosse staio illuminato e virtuoso, sarebbe più felice che non è.
Chiunque sei che aspiri ad allontanarti dalla miseria, esamina questi principj,
combina questi elementi; e con un intimo e costante esame de’ movimenti del tuo
animo gli applicherai a migliorare la tua condizione, diminuendo l’eccesso de’
desideri sul potere. A misura che avrai più lumi, a misura che ti avvezzerai a
combinare le idee con migliore metodo, sarai più sicuro di te medesimo, de’
tuoi principi, della tua virtù.
Gli uomini più eruditi sono quelli che hanno letto di più, e
corredata di più la memoria di cose e pensieri altrui; gli uomini più saggi
sono coloro che hanno riflettuto e pensato di più essi medesimi, e che hanno
prima di ogni altra cognizione esaminata la loro interna costituzione e posto
in ordine il sistema di loro stessi. La lettura continuata ed estesa ci porta
nelle scienze tanto lontani da noi medesimi, quanto gli spettacoli e le
rumoreggianti società. Molti hanno bisogno di un libro per allontanare la noia
di essere con loro medesimi, e il pregio maestro dell’uomo è appunto la
capacità di ripiegarsi in sé stesso, conoscersi e farsi spettacolo interessante
delle proprie osservazioni. Il saggio coltiva le scienze, le lettere e le arti
per gloria, o per diletto, o per vivere; ma coltiva le interessantissime
cognizioni del suo animo, l’esame de’ suoi desiderj, lo sviluppamento del
proprio potere, per allontanarsi quanto è possibile nelle sue circostanze dalla
infelicità.
Qual è il carattere d’un uomo più disposto di ogni altro a
godere della felicità? Non v’è uomo, per insensato che sia, che in qualche ceto non possa
ottenere la stima, come non vi è all’opposto merito, per luminoso che sia, che
in qualche ceto non possa essere disprezzato. È però vero che quell’uomo che
avrà nel tempo stesso forza e dolcezza d’animo, cosicché nè l’una degeneri in
asprezza, nè l’altra renda lo spirito debole e molle, sarà comunemente stimato
presso ogni nazione ed in ogni secolo. L’uomo saggio
resta egualmente distante e dall’inurbanità e da quella servile passività che
lo dispone ad essere mero stromento di chi ardisce di adoperarlo. Un uomo
debole non è mai sicuro della propria virtù. La virtù suppone una esistenza
ferma e fondata sopra principi costantemente seguiti e difesi. Fra le nazioni
corrotte tu vedi il sorrìso sulla faccia dei cittadini. Fra le nazioni
illuminate leggerai in fronte agli uomini l’onorata sicurezza e l’amore
dell’ordine. In ogni nazione il saggia esamina prima di determinarsi; si
determina prima di agire; ha un carattere suo; conforma talvolta alla comune
opinione le sue maniere esterne, non però mai i suoi sentimenti; ricerca in
tutto di sviluppare i primi elementi delle proprie idee affine di preservarsi
dall’errore; e fra le verità possibili sente che la più importante e dimostrata
di tutte è, che deve cercare la propria felicità.